lunedì 4 maggio 2009

Bioetica

Cari lettori, pubblico un'interessante intervista fatta ad un medico, che ho avuto l'onore di conoscere personalmente, su un tema di cui si parla tanto in questi ultimi tempi: la bioetica

Paolo Marchionni
Dirigente Medico-Legale, Zona territoriale n. 1 di Pesaro. Dal marzo 2007 è stato chiamato quale esperto di bioetica a far parte del Comitato Etico di Area Vasta Romagnola, con sede presso la
ASL di Cesena e con competenze per la ASL di Ravenna, Cesena, Forlì e Rimini, nonché per l'IRST di Meldola. Svolge attività di docenza presso la Facoltà di Farmacia dell'Università di Urbino.

Che cosa pensa di una norma che sancisca il testamento biologico?
Ritengo che una norma del genere non sia pertinente alle necessità dei pazienti né alla dignità della professione. Provo a spiegarmi con un esempio. Di fronte a qualsiasi richiesta di un paziente, il medico deve valutare – secondo “scienza e coscienza” – il comportamento da tenere, utilizzando cioè le conoscenze scientifiche di cui è portatore insieme ai convincimenti deontologici che sono a fondamento della professione stessa, oltre che alla visione etica personale. Non c'è bisogno di una norma là dove sono già presenti indicazioni che derivano dalla millenaria storia della professione medica!

Che cosa intende per accanimento terapeutico?
Con questo termine credo si debbano intendere quei comportamenti che, sul piano terapeutico, sono
da ritenere inadeguati rispetto alla situazione clinica che si presenta all’attenzione del medico e del suo operare. In altre parole, è accanimento tutto ciò che, alla luce della scienza medica, non è più
efficace a perseguire un determinato obiettivo di salute per quel paziente, ed anzi risulta per lui
dannoso. Non si può dunque definire a priori che cosa sia, ma tale indicazione va applicata caso per caso, tenendo conto appunto dell’efficacia o no del trattamento messo in atto e anche della capacità di accettazione del paziente di quel determinato trattamento. Diversamente, le cure cosiddette ordinarie – come l'alimentazione, l'idratazione e l'igiene personale – non possono essere considerate accanimento terapeutico, ma in quanto tali “cure”; non sono affatto terapie, bensì appunto cure ordinarie, che si assicurano a tutti coloro che non possono provvedervi da soli (si pensi ai neonati o ai bambini, oppure anche ai soggetti in coma).
Intendo cioè per accanimento terapeutico tutte quelle situazioni che non sono affatto adeguate alle necessità cliniche di quel determinato paziente, non portando a lui alcun beneficio, ma
sottoponendolo piuttosto a trattamenti che tendono a prolungare inutilmente sofferenze e patimenti, senza che vi sia alcun beneficio per il paziente stesso.

Che cosa intende per eutanasia?
Con questo termine, la tradizione medica e deontologica ha sempre inteso ogni atto tendente ad
abbreviare la vita del paziente, accelerandone la morte: e ciò sia con azioni direttamente intese a
provocare la morte, sia con omissioni che proprio in virtù di quello che non viene fatto, possono
accelerare la fine della vita.

Nel codice deontologico ci sono le risposte necessarie a questa problematica?
Il Codice Deontologico del dicembre 2006 è certamente in grado di rispondere alle problematiche della fine della vita: esso salvaguarda infatti le scelte del paziente all'interno di alcuni limiti posti a tutela della professione medica, là dove consente al paziente di esprimere le proprie volontà, in una logica di dialogo e di relazione con il medico, e non come imposizione di una volontà
“incompetente” di fronte alla “competenza” tecnica: la quale però deve anche necessariamente
tenere conto delle legittime richieste del paziente, che valuta la ricaduta che le cure possono avere sulla sua persona e sul suo fisico.

C’è e in che cosa consiste il conflitto tra volontà espresse in precedenza dal paziente e posizione di garanzia del medico?
Le volontà antecedenti del paziente possono facilmente confliggere con le indicazioni del medico: è evidente che chi esprime una volontà da far valere in un momento successivo, non potrà conoscere in anticipo le situazioni nel momento in cui esse si realizzano; situazioni che invece sono direttamente conosciute e chiare al medico che deve prendere le decisioni nel momento in cui esse si rendono necessarie, nell'interesse del paziente. Il tema del cosiddetto “testamento biologico” è in realtà un falso problema, o meglio un problema presentato nel dibattito in maniera falsata.
L’ipotesi di fissare per legge le dichiarazioni anticipate di trattamento non tiene conto delle
condizioni diverse in cui viene a trovarsi un paziente rispetto a quando potrebbe aver redatto le
dichiarazioni; inoltre già oggi il paziente, nel rapporto con il medico, può chiedere a lui di non
essere sottoposto a trattamenti che ritenga eccessivi per la propria capacità di “sopportazione”,
anche con riferimento all’impegno che essi possono determinare nel contesto familiare.

Nel corso della sua professione ha mai avuto problemi, nel senso di denunce legali, nel caso di interventi contrari alle indicazioni del paziente che pur hanno consentito di salvare la vita o di ristabilire un equilibrio di salute o disospensione di terapie sproporzionate da cui è derivata la morte del paziente?
No, anche perché la mia professione di medico-legale semmai mi mette nella posizione di sostenere i colleghi che possono avere problemi di questo tipo.

Può indicare la differenza tra testamento biologico e pianificazione dei trattamenti, contestualizzata nella relazione medico-paziente?
E' questo il vero nodo della questione: la relazione medico-paziente. Una relazione che si fonda
sull’alleanza terapeutica.

L’implementazione delle cure palliative e dell’assistenza domiciliare, delle strutture di lungodegenza e degli Hospice possono essere una risposta all’eutanasia e all’abbandono terapeutico? Come si presenta la sua realtà geografica da questo punto di vista?
Certamente sì. L’adeguatezza delle cure palliative, ed in particolare la terapia del dolore, la
assistenza domiciliare, la creazione di hospices sono senz'altro modalità per aiutare i pazienti molto gravi ad affrontare la malattia e l'avvicinarsi della morte.
La realtà geografica nella quale opero – le Marche – è piuttosto indietro da questo punto di vista; gli hospices non esistono, la terapia del dolore è praticata in maniera non sistematica da bravi
professionisti che però – ovviamente – non possono garantire le cure necessarie a tutti i pazienti che ne avrebbero bisogno. Credo che la politica debba finalmente farsi carico delle necessità dei
pazienti in ordine alla implementazione delle cure palliative: piuttosto che impiegare risorse e
perdere tempo in inutili ed estenuanti discussioni su testamento biologico, autodeterminazione del paziente, diminuzione del ruolo dei medici rispetto alla volontà del paziente, la politica dovrebbe assicurare le risorse necessarie per introdurre – o adeguare – le strutture per l'assistenza ai pazienti gravi. Del resto, l’attività del medico e dell’operatore sanitario non potrà che essere improntata alla fedeltà a scelte terapeutiche operate in “scienza e coscienza”; e se con la parola “scienza” dobbiamo intendere il bagaglio culturale condiviso con gli altri appartenenti alla medesima arte sanitaria ed aggiornato alla luce delle più recenti evoluzioni, la “coscienza” è il frutto di quelle scelte – individuali certamente, ma anche condivise da tutta la professione – che nei secoli si sono tramandate e hanno illuminato e diretto tutto l’agire medico.
Se il Giuramento di Ippocrate, oltre 2500 anni fa, era in grado di affermare “Giammai mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali né commetterò mai cose di questo genere”, tanto più oggi, quando le conoscenze scientifiche ci mettono a disposizione da un lato efficaci trattamenti per contenere il dolore, dall’altro strumenti di valutazione e di cura finalizzati al recupero di pazienti anche molto compromessi, la medicina dovrà porsi come strumento di tutela e di salvaguardia proprio di coloro che, più deboli e fragili, hanno necessità di maggiore sostegno e di più cure. E quando non sarà più possibile il “curare” in senso terapeutico medico, dovrà essere sempre possibile il “prendersi cura”: si dovrà in altre parole, essere in grado di passare dal to cure al to care, per assicurare a tutti i pazienti, anche ai più gravi, la dignità degli ultimi giorni.

Saranno graditi i vostri commenti!

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