domenica 31 ottobre 2010

XXXI domenica del tempo ordinario


Lc 19, 1-10


Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».  Parola del Signore!
 

Commento

L'incontro con Gesù toglie ogni amarezza dal cuore

La liturgia di queste ultime domeniche dell’anno liturgico insistono nel presentarci il volto misericordioso di Dio che volge il Suo sguardo verso l’uomo peccatore.
In questa domenica il vangelo di Luca ci parla di Zaccheo uomo piccolo di statura e capo dei pubblicani considerato il peggiore tra i peccatori perché si arricchiva sfruttando il popolo e beneficiando dei favori dei romani. Ma proprio quest’uomo, sapendo che Gesù stava attraversando la città di Gerico, non vuole perdere l’occasione di vedere chi mai fosse questo “capo” di cui aveva tanto sentito parlare. Molto probabilmente Zaccheo pensa: anch’io sono un capo, anch’io sono potente e sono anche molto ricco, ma c’è qualcosa nella mia vita che non va ma non so da che cosa possa dipendere questa mia inquietitudine. Essendo piccolo di statura non vuole rischiare di venire nascosto dalla folla, decide così di salire sul sicomoro per poter vedere Gesù. Ecco che avviene qualcosa di inaspettato: Gesù passa e volge il suo sguardo su di lui e gli chiede di accoglierlo nella sua casa. Zaccheo scopre che Gesù è un “capo” diverso da lui e da tutti gli altri capi, è un capo capace di leggere dentro il suo cuore e di conoscere  i suoi desideri, è un capo che non si mette al di sopra di tutto e di tutti e che giudica, ma è un capo che si vuole solo fermare a casa sua. Egli scopre che si può essere capi in modo molto diverso e, con grande gioia, scende dall’albero e corre ad aprire la porta a Gesù: il cambiamento è avvenuto, l’incontro ha prodotto i suoi frutti… “ Ecco Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”.
Il sicomoro è un albero che produce frutti molto amari e per renderli commestibili è necessario praticare un’incisione su di esso che faccia uscire tutto l’amaro. Gesù quest’ incisione l’ha praticata nel cuore di Zaccheo dal quale è uscita tutta quell’amarezza che i suoi tanti peccati avevano provocato. Ora Zaccheo è un uomo nuovo e, anche lui come figlio di Abramo, è reso partecipe della salvezza che Gesù ha ottenuto per tutti gli uomini. La missione di Gesù è proprio quella di ricondurre al Padre tutte le pecorelle smarrite guardando ogni uomo, non dall’alto in basso come fanno i potenti di questo mondo, ma con amore e misericordia per farsi incontrare. Tutto il resto viene poi da sé.
La proposta che Gesù fa a Zaccheo è la stessa che fa ad ognuno di noi ma, se non siamo umili e desiderosi di conversione, rischiamo di lasciare che il Signore passi invano nella nostra vita. Il tempo che ci viene concesso di vivere è tempo prezioso per  incontrare  Gesù e quindi per lasciarci trasformare, non lo sprechiamo, perderemo per sempre l’unica occasione di felicità eterna della quale tutti possiamo essere  resi partecipi. Anche noi  siamo figli di Abramo!

Buona e santa domenica del Signore Gesù!

domenica 24 ottobre 2010

XXX domenica del tempo ordinario




Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 18,9-14.

 
“Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato»”[1].


Commento a cura di P. Ermes Ronchi
Gesù, rivolgendosi a chi si sente a posto e disprezza gli altri, denuncia anche a noi i rischi della preghiera: non si può pregare e disprezzare, adorare Dio e umiliare i suoi figli. Ci si allontana dagli altri e da Dio; si torna a casa, come il fariseo, con un peccato in più. Il fariseo inizia con le parole giuste: O Dio, ti ringrazio. Ma tutto ciò che segue è sbagliato: ti ringrazio di non essere come tutti gli altri, ladri, ingiusti, adulteri. Non si confronta con Dio, ma con gli altri, e gli altri sono tutti disonesti e immorali. In fondo è un infelice, sta male al mondo: l'immoralità dilaga, la disonestà trionfa... L'unico che si salva è lui stesso. Onesto e infelice: chi guarda solo a se stesso non si illumina mai. Io digiuno, io pago le decime, io... Il fariseo è affascinato da due lettere magiche, stregate, che non cessa di ripetere: io, io, io. È un Narciso allo specchio, Dio è come se non esistesse, non serve a niente, è solo una muta superficie su cui far rimbalzare la propria auto sufficienza. Il fariseo non ha più nulla da ricevere, nulla da imparare: conosce il bene e il male, e il male sono gli altri. Che è un modo terribilmente sbagliato di pregare, che può renderci «atei». Invece, nel Padre Nostro, modello di ogni preghiera, mai si dice «io» o «mio», ma sempre «tuo» o «nostro». Il tuo regno, il nostro pane. Il fariseo ha dimenticato la parola più importante del mondo: tu. Vita e preghiera percorrono la stessa strada: la ricerca mai arresa di un tu, uomo o Dio, in cui riconoscersi, amati e amabili, capaci di incontro vero, quello che fa fiorire il nostro essere. Il pubblicano non osava neppure alzare gli occhi, si batteva il petto e diceva: Abbi pietà di me peccatore. Due parole cambiano tutto nella sua preghiera e la fanno vera. La prima parola è tu: Tu abbi pietà. Mentre il fariseo costruisce la sua religione attorno a quello che lui fa, il pubblicano la edifica attorno a quello che Dio fa. La seconda parola è: peccatore, io peccatore. In essa è riassunto un intero discorso: «sono un ladro, è vero, ma così non sto bene; non sono onesto, lo so, ma così non sono contento; vorrei tanto essere diverso, non ci riesco; e allora tu perdona e aiuta». Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, non perché più umile del fariseo (Dio non si merita, neppure con l'umiltà), ma perché si apre - come una porta che si socchiude al sole, come una vela che si inarca al vento - a un Dio più grande del suo peccato, vento che fa ripartire. Si apre alla misericordia, a questa straordinaria debolezza di Dio che è la sua unica onnipotenza. (Letture: Siracide 35,15-17.20-22; Salmo 33; 2 Timoteo 4,6-8.16-18; Luca 18,9-14)



domenica 17 ottobre 2010

XXIX Domenica del Tempo Ordinario



Dal Vangelo secondo Luca

Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui.

Lc 18,1-8

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Omelia di padre Ermes Ronchi


La lezione di preghiera della vedova
Per mostrarci che biso­gna pregare sempre senza stancarsi Gesù ci invita a scuola di preghiera da una povera vedova. Lun­go tutto il vangelo il Maestro rivela come una predilezio­ne particolare per le donne sole e le rende strumento di verità decisive.
C'era un giudice corrotto in una città. E una vedova si re­cava ogni giorno da lui: fam­mi giustizia! Che bella im­magine di donna forte, di­gnitosa; che non si arrende all'ingiustizia e nessuna sconfitta l'abbatte. In questa donna, fragile e indomita, Gesù mostra due cose: il mo­do di chiedere (con tenacia e fiducia) e il contenuto della richiesta. La vedova chiede giustizia a chi fa la giustizia, chiede al giudice di essere vero giudice, di essere se stesso. E così accade nel no­stro andare da Dio: pregare è in fondo chiedere a Dio di darci se stesso. Ed è tutta la prima parte del Padre No­stro: sia santificato il tuo no­me..., sia fatta la tua volontà.
Che è come chiedere Dio a Dio: donaci te stesso! Il gran­de mistico Maister Eckart di­ceva: Dio non può dare nul­la di meno di se stesso. E Ca­terina da Siena aggiungeva: ma dandoci se stesso ci dà tutto .
Ma allora perché pregare sempre? Non perché la ri­sposta tarda, ma perché la risposta è infinita. Perché Dio è un dono che non ha ter­mine, mai finito. E poi per riaprire i sentieri. Se non lo percorri spesso, il sentiero che conduce alla casa dell'a­mico si coprirà di rovi. Van­no sempre riaperti i sentieri del Dio amico.
Ma come si fa a pregare sem­pre? A lavorare, incontrare persone, studiare, dormire e nello stesso tempo pregare? Innanzitutto pregare non si­gnifica recitare preghiere, ma sentire che la nostra vita è immersa in Dio, che siamo circondati da un mare d'a­more e non ce ne rendiamo conto. Pregare è come voler bene. Se ami qualcuno, lo a­mi sempre. Qualsiasi cosa tu stia facendo non è il senti­mento che si interrompe, ma solo l'espressione del senti­mento. «Il desiderio prega sempre, anche se la lingua tace. Se tu desideri sempre, tu preghi sempre. Quand'è che la preghiera sonnecchia? Quando si raffredda il desi­derio» (sant'Agostino).
Pregare sempre si può: la pre­ghiera è il nostro desiderio di amore. Ma Dio esaudisce le preghiere? Sì, Dio esaudi­sce sempre, ma non le no­stre richieste bensì le sue promesse (Bonhoeffer): il Padre darà lo Spirito Santo (Lc 11,13), io e il Padre verre­mo a lui e prenderemo di­mora in lui (Gv 14,23). Non si prega per ricevere ma per essere trasformati. Non per ricevere dei doni ma per ac­cogliere il Donatore stesso; per ricevere in dono il suo sguardo, per amare con il suo cuore.

sabato 16 ottobre 2010

Anniversario di matrimonio


Dall'editoriale SamizdatOnline una bella testimonianza di vita vissuta nell'amore vero.


Proprio ieri, un sabato 18 settembre di diciassette anni fa, mi sono unito in matrimonio con mia moglie Ornella. Sapete, questo tipo di ricorrenze portano spontaneamente a fare un bilancio della propria storia. È normale, è umano. Ci si guarda indietro, poi ci si guarda oggi. Si riesce a dare un giudizio su quello che si è vissuto.
Mi viene da dire, con uno slogan, “diciassette anni e sentirli”, ma non nel senso di una fatica (per come comunemente viene intesa la frase), quanto piuttosto per il “peso”, il peso specifico che questi anni hanno avuto per me.
Sono in qualche modo molti, se si pensa alla fragilità attuale delle unioni matrimoniali.
La profonda intuizione di Karol Woytjla, che si trova in quella stupenda opera teatrale che è La bottega dell’orefice, oggi più che mai è divenuta norma: “A volte una vita sembra troppo lunga per un amore”. Sì, oggi non si crede che un amore possa durare a lungo. Oggi non si crede possibile che un uomo possa convivere per molti anni con la stessa donna (e che i due possano affrontare l’inevitabile piccola o grande disillusione che succede all’idillio, che i due possano assistere insieme serenamente al tempo che passa, all’abitudine che subentra, insomma a tutti quei limiti propri della condizione umana) senza andare in cerca di qualcosa di nuovo. Senza, come si dice, “rifarsi una vita”. La vita è troppo lunga per un amore solo!
Io però vorrei specificare che la vita è troppo lunga per la degradata immagine dell’amore che ha l’uomo contemporaneo. L’amore dei film, dei serial televisivi, di Hollywood ha il respiro corto. È vero. Tant’è vero che raramente viene proposta, da queste agenzie dell’inculturazione delle masse, la realtà di un amore dal respiro lungo. E questo semplicemente perché gli autori delle storie non sanno più nemmeno che cosa sia. Se Dio si eclissa dal panorama dell’uomo, è l’uomo stesso a perdere colpi, ad eclissarsi. A cominciare da quell’autentico e profondo desiderio che ci fa dire (quando incontriamo la donna della nostra vita): “vorrei stare con te per sempre”. E quel per sempre lo diciamo con tutto il trasporto, con tutta l’onestà e la verità di cui siamo capaci. Non bluffiamo in quel momento. Bene, questo desiderio è destinato ad ammuffire, a marcire, se non ci s’incontra con l’Amore infinito.
Lo spiega bene La bottega dell’orefice: l’uomo desidera qualcosa d’infinito senza avere le misure dell’infinito. È una bella pretesa! Non c’è altro modo, per risolvere la questione, che mettere il proprio amore nelle mani dell’Infinito.
È quello che io e Ornella abbiamo fatto diciassette anni fa e che cerchiamo di fare ancora, dopo che tanta vita è già passata. Il nostro rapporto deve essere un triangolo. Tra me e lei ci deve essere Lui. Altrimenti non ci si ama, non ci si ascolta, soprattutto non ci si perdona.
Un’altra cosa. Proprio ieri, giorno dell’anniversario, ero in classe a discutere di Dio con i miei ragazzi. Il professore di filosofia li aveva spiazzati, dicendogli che Dio non è dimostrabile. Ho dovuto spiegargli che questo è vero, se consideriamo la ragione umana in modo riduttivo, cioè capace di arrivare alla certezza di qualcosa solo attraverso la matematica, il metodo sperimentale, la logica. Ma noi usiamo continuamente un altro metodo, che ci dà ugualmente una certezza del tutto ragionevole. Questo metodo è il leggere dei segni che ci giungono da fuori. È il metodo che utilizziamo più spesso e che ci serve per vivere. È il metodo della certezza per fede, che non deprime, ma esalta la nostra ragione.
Bene, guardando e considerando questi diciassette anni, ho molti segni che mi danno una certezza assolutamente ragionevole: non solo Dio esiste, ma accompagna la mia vita. È stato presente allo’origine della mia storia d’amore, è stato sempre presente, soprattutto negli snodi fondamentali di questa storia.
Mentre rendevo questa testimonianza, qualcuno si è commosso. Segno buono: vuol dire che esiste ancora qualcuno pronto a sfidare la lunghezza della vita a partire dalla certezza che l’Amore esiste e supera tutto, anche il tempo.
Gianluca Zappa

Qualunque  altra  testimonianza sull'argomento da proporre a questo blog sarà ben accetta... è necessario far sapere che l'amore vero esiste e. con l'aiuto di Dio,  riesce ad essere fedele e duraturo.
Grazie!

venerdì 15 ottobre 2010

Santa Teresa D'Avila

Oggi è la festa di santa Teresa di Gesù, una grande santa vissuta nel 1500 che  ha posto  al centro della sua esperienza di fede (pensiero mistico di Teresa) l'amicizia tra il Signore e la sua creatura.
Propongo alcuni importanti suggerimenti su come pregare che santa Teresa ci ha voluto donare per aiutarci a vivere con Gesù un vero rapporto d'amore.


(Pieter Paul Rubens)


« Nulla ti turbi,
nulla ti rattristi,
tutto passa:
solo Dio non muta.
La pazienza
tutto conquista.
Se hai Dio nel cuore
nulla ti manca:
solo Dio basta. »

(Santa Teresa di Gesù, Poesía, 9)

Dagli scritti di Santa Teresa

 L'orazione mentale non è altro, per me, che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenimento, da solo a solo, con Colui da cui sappiamo d'essere amati.
... la porta per cui mi vennero tante grazie fu soltanto l'orazione. Se Dio vuole entrare in un'anima per prendervi le sue delizie e ricolmarla di beni, non ha altra via che questa, perché Egli la vuole sola, pura e desiderosa di riceverlo.
Certo bisogna imparare a pregare. E a pregare si impara pregando, come si impara a camminare camminando.
...nel cominciare il cammino dell'orazione si deve prendere una risoluzione ferma e decisa di non fermarsi mai, né mai abbandonarla. Avvenga quel che vuole avvenire, succeda quel che vuole succede-re, mormori chi vuole mormorare, si fatichi quanto bisogna faticare, ma piuttosto di morire a mezza strada, scoraggiati per i molti ostacoli che si presentano, si tenda sempre alla méta, ne vada il mondo intero.
Pensate di trovarvi innanzi a Gesù Cristo, conversate con Lui e cercate di innamorarvi di Lui, tenendolo sempre presente. La continua conversazione con Cristo aumenta l'amore e la fiducia. Buon mezzo per mantenersi alla presenza di Dio è di procurarvi una sua immagine o pittura che vi faccia devozione, non già per portarla sul petto senza mai guardarla, ma per servirsene ad intrattenervi spesso con Lui ed Egli vi suggerirà quello che gli dovete dire.
Se parlando con le creature le parole non vi mancano mai, perché vi devono esse mancare parlando con il Creatore? Non temetene: io almeno non lo credo!
Non siate così semplici da non domandargli nulla! Chiedetegli aiuto nel bisogno, sfogatevi con Lui e non lo dimenticate quando siete nella gioia, parlandogli non con formule complicate ma con spontaneità e secondo il bisogno.
Cercate di comprendere quali siano le risposte di Dio alle vostre domande. Credete forse che Egli non parli perché non ne udiamo la voce? Quando è il cuore che prega, Egli risponde.
A chi batte il cammino della preghiera giova molto un buon libro.
Per me bastava anche la vista dei campi, dell'acqua, dei fiori: cose che mi ricordavano il Creatore, mi scuotevano, mi raccoglievano, mi servivano da libri.
Per molti anni, a meno che non fosse dopo la Comunione, io non osavo cominciare a pregare senza libro.
E' troppo bella la compagnia del buon Gesù per dovercene separare! E' altrettanto si dica di quella della sua Santissima Madre. ... fate il possibile di stargli sempre accanto. Se vi abituerete a tenervelo vicino ed Egli vedrà che lo fate con amore e che cercate ogni mezzo per contentarlo, non solo non vi mancherà mai, ma, come suol dirsi, non ve lo potrete togliere d'attorno. L'avrete con voi dappertutto e vi aiuterà in ogni vostro travaglio. Credete forse che sia poca cosa aver sempre vicino un così buon amico?
Poiché Gesù vi ha dato un Padre così buono, procurate di essere tali da gettarvi fra le sue braccia e godere della sua compagnia.
E chi non farebbe di tutto per non perdere un tal Padre? Quanti motivi di consolazione! Li lascio alla vostra intuizione! In effetti, se la vostra mente si mantiene sempre tra il Padre e il Figlio, interverrà lo Spirito Santo ad innamorare la vostra volontà col suo ardentissimo amore.
Quelli che sanno rinchiudersi nel piccolo cielo della loro anima, ove abita Colui che la creò e che creò pure tutto il mondo, e si abituano a togliere lo sguardo e a fuggire da quanto distrae i loro sensi, vanno per buona strada e non mancheranno di arrivare all'acqua della fonte.
Essendo vicinissimi al focolare, basta un minimo soffio dell'intelletto perché si infiammino d'amore, già disposti come sono a ciò, trovandosi soli con il Signore, lontani da ogni oggetto esteriore.
Per cominciare a raccogliersi e perseverare nel raccoglimento, si deve agire non a forza di braccia ma con dolcezza. Quando il raccoglimento è sincero, l'anima sembra che d'improvviso s'innalzi sopra tutto e se ne vada, simile a colui che per sottrarsi ai colpi di un nemico, si rifugia in una fortezza.
Dovete saper che questo raccoglimento non è una cosa soprannaturale, ma un fatto dipendente dalla nostra volontà e che noi possiamo realizzare con l'aiuto di Dio.
Sapevo benissimo di avere un'anima, ma non ne capivo il valore, né chi l'abitava, perché le vanità della vita mi avevano bendati gli occhi per non lasciarmi vedere.
Se avessi inteso, come ora, che nel piccolo albergo dell'anima mia abita un Re così grande, mi sembra che non l'avrei lasciato tanto solo...e sarei stata più diligente per conservami senza macchia. Non si creda che nuoccia al raccoglimento il disbrigo delle occupazioni necessarie.
Dobbiamo ritirarci in noi stessi, anche in mezzo al nostro lavoro, e ricordarci di tanto in tanto, sia pure di sfuggita, dell'Ospite che abbiamo in noi, per-suadendoci che per parlare con Lui non occorre alzare la voce.
Il Signore ci conceda di non perdere mai di vista la sua divina presenza!
Quando un'anima... non esce dall'orazione fermamente decisa a sopportare ogni cosa, tema che la sua orazione non venga da Dio.
Quando un'anima si unisce così intimamente alla stessa misericordia, alla cui luce si riconosce il suo nulla e vede quanto ne sia stata perdonata, non posso credere che non sappia anch'essa perdonare a chi l'ha offesa.
Siccome le grazie ed i favori di cui si vede inondata le appariscono come pegni dell'amore di Dio per lei, è felicissima di avere almeno qualche cosa per testimoniare l'amore che anch'ella nutre per lui.
La preghiera non è qualcosa di statico, è un'amicizia che implica uno sviluppo e spinge a una trasformazione, a una somiglianza sempre più forte con l'amico.

domenica 10 ottobre 2010

XXVIII domenica del tempo ordinario


VANGELO (Lc 17,11-19)

Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero.

+ Dal Vangelo secondo Luca

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Parola del Signore

Commento

la liturgia di questa XXVIII domenica del tempo ordinario propone ancora un brano del vangelo di Luca che ci invita a vivere la nostra vita avendo fede in Dio nostro padre per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.
Il brano racconta di 10 lebbrosi che, mentre Gesù era in cammino verso Gerusalemme, gli si avvicinano chiedendogli di avere pietà di loro per la brutta malattia di cui erano affetti. I lebbrosi, infatti, al tempo di Gesù erano delle persone che vivevano ai margini della società per 2 motivi:
1) la lebbra era considerata una malattia infettiva e quindi nessuno osava avvicinarsi neanche lontanamente a chi ne era affetto;
2) la lebbra era anche vista come un castigo divino per peccati gravi commessi.
Gesù accoglie la richiesta di guarigione dei 10 lebbrosi e li invita a presentarsi ai sacerdoti. Mentre essi stavano andando si ritrovano guariti. Ma di questi 10, solo uno, un samaritano, uno considerato straniero perché non ebreo e quindi anche peccatore, torna indietro a lodare Dio e si prostra ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Giustamente Gesù dice:” e gli altri nove?” Non sono stati guariti anche loro? Certo, ma solo nel corpo,  mentre lo straniero ha accolto un dono più grande : quello della fede, che lo ha guarito anche nel cuore, e Gesù gli dice:” va, la tua fede ti ha salvato!” Eppure questo dono Gesù l’aveva fatto anche agli altri nove lebbrosi, ma essi, essendo giudei, hanno tirato dritto verso i sacerdoti considerando la loro guarigione come un diritto. Il diritto di non essere impuri, di vivere in salute, di essere amati ed accolti da tutti, il diritto di essere felici, di mangiare e di bere a volontà…ma non è questo l’atteggiamento che vale davanti a Dio. Il samaritano riconoscendo di aver ricevuto un dono da Dio si mette in cammino con Gesù lungo la strada verso Gerusalemme, luogo sì della sua passione e morte ma soprattutto luogo della Sua Resurrezione, quella Resurrezione di cui sarà reso partecipe per tutta l’eternità. E’ questa la salvezza di cui parla Gesù, alla quale noi tutti possiamo arrivare facendo della nostra vita un continuo atto di fede.
Siamo capaci noi di tornare indietro come il lebbroso samaritano a ringraziare Gesù riconoscendo i tanti doni che ci fa ogni giorno? Oppure siamo come quei nove che si lasciano guarire solo nel corpo? Spesso accade che noi, che ci definiamo cristiani, pensiamo per questo di essere più vicini al Signore di altri e non ci accorgiamo che il nostro stile di vita è molto lontano da quello proposto dal Vangelo. Chi invece non conosce Dio, potrebbe essergli  più vicino di quanto pensiamo. Riconosciamo dunque di avere bisogno di conversione, quella conversione del cuore che ci porta a dire ogni giorno: GRAZIE SIGNORE GESU’!

Buona e santa settimana a tutti meditando e vivendo le parole di questo Vangelo.

sabato 9 ottobre 2010

L'infinito bisogno di giustizia è una ferita


SARAH SCAZZI, una delle nostre tante ragazze... ma vittima di un orrore che lascia tutti senza parole!






La realtà a volte è disumana, terribile, e oggi tutto viene messo in mostra, anche i particolari che un tempo si sarebbero tenuti nascosti. Ma alla realtà occorre stare davanti, anche se ferisce.
La ricerca del colpevole, diceva Baumann, è la suprema difesa dell’uomo moderno di fronte allo scacco che la morte pone. Rimane però la ferita e la realtà, un tessuto da ricostruire a partire da Uno più grande, che c'é.


L'infinito bisogno di giustizia è una ferita

... Eppure quella commozione davanti alle telecamere, prima che si scoprisse l'orribile fatto, credo fosse sincera.
Anche lui non poteva capire - come a un certo punto ha confessato incalzato dalle domande della figlia -, perché l'avesse fatto e il rimorso ha prevalso su tutto. E a me pare che quelle lacrime davanti alla Tv fossero lacrime vere anche se usate per ingannare. Ma questo male e rimorso infinito non potrà mai rimetterlo in pace né con sé stesso, né con i suoi.
Potrà mai anche l'ergastolo restituire Sarah all'affetto di chi l'amava?
E lo zio potrà perdonarsi per quello che ha fatto? MAI.
A meno che ... "Feriti, torniamo a Cristo" dove si dice una cosa infinita come è infinito il nostro bisogno di giustizia:"La nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita. Incapace di essere esaurita, tanto è infinita. Per questo è comprensibile l’insofferenza, perfino la delusione delle vittime, anche dopo il riconoscimento degli errori: nulla basta per soddisfare la loro sete di giustizia. È come se toccassimo un dramma senza fondo.
Da questo punto di vista, gli autori degli abusi si trovano paradossalmente davanti a una sfida simile a quella delle vittime: niente è sufficiente per riparare il male fatto. Questo non vuol dire scaricarli della responsabilità, tanto meno della condanna che la giustizia potrà imporre loro. Non basterà neanche scontare tutta la pena.(...)
"Per questo anche quelli più esigenti, più accaniti nel pretendere giustizia, non saranno leali fino al fondo di se stessi con la loro esigenza di giustizia, se non affrontano questa loro incapacità, che è quella di tutti. Se questo non accadesse, soccomberemmo a una ingiustizia ancora più grave, a un vero “assassinio” dell’umano, perché per poter continuare a gridare giustizia secondo la nostra misura dovremmo far tacere la voce del nostro cuore. Dimenticando le vittime e abbandonandole nel loro dramma".
Nulla potrà restituirci la cara Sarah. E la nostra esigenza di giustizia non sarà soddisfatta realmente nemmeno da dieci ergastoli. Occorre un giustizia più grande.
E c'è.

mercoledì 6 ottobre 2010

Caro Edwards, quante vite di bambini è costato il tuo Nobel?




I problemi che suscita la soluzione di Edwards sono molti. Potendo ottenere esseri umani senza madre, padre, famiglia, responsabilità, sesso, dando la possibilità di selezionare il tipo di umano che si può ottenere da quello che non è più un atto d'amore ma un processo, il ricercatore ha scoperchiato un vaso di Pandora le cui profondità fatichiamo adesso ad immaginare, ma che senza dubbio diverranno evidenti sempre più con il passare del tempo.
Se la ricerca scientifica é "sacra" , e non deve e non può incontrare ostacoli, non abbiamo ragione di indignarci ad esempio per le pratiche del tristemente famoso dottor Mengele. Le tecniche di Edwards hanno come corollario la distruzione di un gran numero di embrioni.
 Quale differenza c'è dunque nei due casi? SamizdatOnline

Caro Edwards, quante vite di bambini è costato il tuo Nobel?

Senza, per questo, svalutare o censurare il contributo che la scienza e la medicina possono offrire loro nel compimento di una vocazione al dono della vita, ma anche senza che i ruoli dei genitori e quelli dei biologici e dei clinici si confondano o uno di essi prenda il posto dell’altro. Guardando il concepito come un “tu” che sta di fronte al proprio “io”, sin dal momento del suo sorgere alla vita, ogni donna e ogni uomo è interpellato personalmente nella sua libertà ad un'accoglienza senza esclusioni e ad una compagnia umana che non lo abbandona mai, in nessuna circostanza.
Ai giornalisti che lo intervistavano, un giorno il professor Edwards ha confidato: «Non potrò mai dimenticare il giorno in cui ho guardato nel microscopio e ho visto una cosa strana nelle colture. [...] Ho guardato nel microscopio e quello che ho visto è stato un blastocisti che mi osservava. Ho pensato: “ce l'abbiamo fatta”».
Chissà se in quel momento, forse il più bello della sua lunga carriera scientifica, il premiato Nobel si sia anche lasciato interrogare dall’embrione che stava sotto i suoi occhi: “Sarà concesso a me, e a milioni di altri esseri umani come me e come te che saranno chiamati alla vita attraverso la tua brillante ricerca scientifica, di poter vedere un giorno il cielo stellato come tu lo vedrai questa sera, dalla finestra di casa tua?” Per poter dire “ce l’abbiamo fatta” con verità, dobbiamo poter offrire ai nostri figli ciò di cui noi non vorremmo privarci mai: la vita ed il suo gusto insaziabile di giorni.
Il resto della storia è conosciuto e ha segnato uno dei capitoli più controversi della ginecologia, dell’andrologia e dell’ostetricia degli ultimi 30 anni che, nel frattempo, unendo i propri sforzi a quelli della biologia della riproduzione e dell’embriologia, avevano dato vita ad una nuova specialità medica, la “medicina della riproduzione”. Essa oggi vanta numerosi cultori nei paesi occidentali e anche (cosa inaudita, considerato il deplorevole stato in cui si trovano altre discipline cliniche, indispensabili per la sopravvivenza e la salute delle popolazioni) in alcuni paesi del Terzo Mondo.
La ricaduta che il lavoro scientifico di Robert Edwards ha avuto sulla ricerca in biologia della fertilizzazione e dello sviluppo negli ultimi tre decenni e la diffusione della tecnologia FIV-ET nell’ambito della cosiddetta “procreazione medicalmente assistita”, non consente di negare la rilevanza dell’opera dello studioso del Regno Unito nell’ambito delle innovazioni che hanno caratterizzato la medicina sul finire del XX secolo e, dunque, il riconoscimento del suo lavoro attraverso il prestigioso premio assegnato dall’Istituto Karolinska in memoria di Alfred Nobel.
Al di là del merito scientifico e dell’impatto nel campo della clinica della infertilità, ci si può legittimamente chiedere se sia tutto oro quello che luccicherà sulla medaglia che sarà consegnata al professor Edwards il 10 dicembre prossimo, a Stoccolma. I dati, trionfalisticamente riportati sulla stampa, parlano di circa quattro milioni di bambini nati attraverso la FIV-ET, ma non rendono ragione della realtà intera della fecondazione artificiale, della sua pratica e delle sue conseguenze.
Per quanto le modalità di FIV, di coltura degli embrioni ottenuti e di ET si siano considerevolmente evolute rispetto a quelle introdotte da Edwards trent’anni orsono, il numero di concepiti che sono esposti al rischio attuale di non potersi sviluppare e di morire prima di potersi impiantare nell’utero della madre resta sempre elevato ... (segue)

lunedì 4 ottobre 2010

SAN FRANCESCO D'ASSISI



In questo giorno ricorre la festa di S. Francesco d’Assisi, patrono d’Italia. Ciò che catarrerizza questo grande santo è la semplicità della sua vita con la quale  ha sempre parlato alle persone di tutti i tempi e di tutti i luoghi. L'uomo di oggi, preso soprattutto dalla ricerca smisurata del benessere materiale, rimane ugualmente affascinato dal messaggio francescano per la semplicità con cui propone di seguire il Vangelo di Cristo. Lo stile di vita di san Francesco non può non  spingerci  ad interrogarci sul senso della nostra  vita e portarci quindi alla riscoperta di quei valori essenziali per tutte le nostre scelte. 
Propongo la recita di una bellissima preghiera di Paolo VI affinché san Francesco ci metta in condizione di  trovare nuove ed autentiche ragioni di vita e di speranza che ci aiutino a risollevarci dalla crisi economica sì,  ma soprattutto da quella morale e spirituale. 

AUGURI A TUTTI I "FRANCESCO"!!!




PREGHIERA A SAN FRANCESCO

Francesco, aiutaci a purificare i beni economici dal loro triste potere

di perdere Dio, di perdere le nostre anime, di perdere la carità dei

nostri concittadini.

Vedi, Francesco, noi non possiamo straniarci dalla vita economica: è la

fonte del nostro pane e di quello altrui; è la vocazione del nostro

popolo, che sale alla conquista dei beni della terra, che sono opere di

Dio; è la legge fatale del nostro mondo e della nostra storia.

Tu ci ammonisci a mirare più in alto, a svincolare il cuore dall'amore

delle cose terrene, e a saperle considerare come buone solo quando ci

sono scala per salire le vie dello spirito e  specchio per

riflettere la bellezza, la bontà, la provvidenza di Dio.

Insegnaci, Francesco, a essere poveri, cioè liberi, staccati e signori,

nella ricerca e nell'uso di queste cose terrene, pesanti e fugaci, perché

restiamo uomini, restiamo fratelli, restiamo cristiani. Amen.
(Da una omelia di Paolo VI)

domenica 3 ottobre 2010

XXVII domenica del tempo ordinario


VANGELO (Lc 17,5-10)

Se aveste fede!

+ Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Parola del Signore

IL COMMENTO DI SUOR GIUSEPPINA PISANO.

Il senso profondo della nostra fede. "Il giusto vivrà per la sua fede". E' l'affermazione che conclude il breve passo della prima lettura, tratta dal profeta Abacuc, che sottolinea l'importanza della fede nell'esistenza umana, soprattutto nell'agire, che non può esser determinato esclusivamente dall'intelligenza, dall'abilità e dalla forza, ma che deve far riferimento ed appellarsi a Dio per non deviare verso il male. Infatti, senza la fede l'uomo finisce per creare situazioni di peccato: "Perché mi fai vedere l'iniquità e resti spettatore dell'oppressione?", esclama il profeta rivolgendosi a Dio, "Ho davanti a me rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese": anche senza voler indulgere al pessimismo, questa è la storia dell'uomo quando questi presume di fare a meno di Dio, quel Dio che illumina e conduce alla salvezza.

VIVERE CON DIO. La fede in Dio, l'ascolto della sua parola, la conoscenza della sua volontà, sono garanzia di giustizia, di pace, di bene per i singoli e per l'intera comunità umana; la fede, quella vera e profonda, che non si ferma alla semplice adesione mentale alla verità che ci trascende, ma è affidamento sincero a Colui che è Creatore e Padre e che, proprio perché Padre, segue, soccorre e sostiene i suoi figli. Ci ricorda il salmista: "Venite, cantiamo al Signore, acclamiamo alla roccia della nostra salvezza." (sal 94); si, Dio è la roccia sicura su cui radicare la nostra esistenza e la nostra storia, una storia che vuole essere di giustizia, di pace, di sicurezza e di speranza, ora nel tempo e per l'eternità. "Il giusto vivrà per la sua fede": l'uomo giusto vive guidato dalla sua fede, che è ascolto di Dio, che è accoglienza ed obbedienza alla sua volontà, una fede che si fa risposta a Dio: "Se oggi ascoltate la sua voce! Non indurite il cuore..." ci ricorda ancora il Salmista; infatti la fede esige una risposta che si renda visibile nei fatti, cioè in uno stile di vita che sia chiara testimonianza di ciò in cui si crede, o meglio di Colui in cui si crede. "Il giusto vivrà per la sua fede", riaffermerà Paolo nella Lettera ai Romani, sottolineando che la nostra fede è riposta nel Vangelo di Cristo, che è "potenza di Dio per la salvezza" di ogni uomo che crede, a qualunque popolo egli appartenga.

FIDARSI DI DIO. Ad una riflessione sulla fede ci guida, appunto, il Vangelo di questa domenica, con un passo del racconto di Luca che si apre con l'invocazione rivolta dagli apostoli a Gesù: "Accresci in noi la fede". Qual è il motivo che spinge gli apostoli a formulare questa richiesta? In precedenza Gesù aveva parlato di ciò che la sequela esige, dell'amore che perdona, un perdono che da parte discepolo di Cristo non può conoscere limiti; altre volte aveva parlato dell'amore per i nemici, un amore che esige si faccia del bene a chi ci odia, un amore che benedice coloro che maledicono e prega per chi ci maltratta. Dice Gesù al suo discepolo: "A chi ti percuote sulla guancia, tu porgi anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica."(Lc 6,27-38). Di fronte a ciò che la sequela di Cristo esige e che la fede in lui comporta, il discepolo scopre la propria pochezza e la debolezza della propria fede; si rende conto della sua limitatezza e della difficoltà ad agire ispirato da una fede viva e coerente. Ed ecco la preghiera per la fede. "Accresci in noi la fede!" chiedono gli apostoli, e il Maestro li illumina e li rassicura sulla forza, l'energia insospettabile che ha in sé la vera fede, quella che non ha bisogno né aspetta segni prodigiosi, ma è affidamento totale, generoso e semplice a Dio che opera in noi e con noi. La fede è una energia spirituale che vive nell'anima dell'uomo e lo muove ad agire; ci dice Gesù che è qualcosa di apparentemente trascurabile come il piccolo seme di senape, solo un granello, che però ha in sè una grande forza vitale che lo fa crescere e trasforma quella entità quasi invisibile in un albero. Ecco, la fede quando è viva, è semplice, è totale fiducioso abbandono a Dio, ha un'energia insospettabile, così come è incredibile che una pianta di gelso obbedisca al comando di spostarsi in mare; eppure ciò è vero, ci assicura il Signore Gesù, il quale, con questa affermazione che pare assurda, vuol dirci che di fede non ne occorre tanta, come a volte si pensa, ne basta poca, purché autentica; ed essa è vera quando non si fonda sulle possibilità umane ma sull'amore di Dio che veglia sull'uomo, lo protegge, lo guida, lo illumina e lo sostiene. Nella fede, le possibilità dell'uomo non si misurano sulle potenzialità umane, ma si misurano a partire dall'amore di Dio verso di noi, e questo amore è infinito ed onnipotente. Questa la forza della fede! Tuttavia non è tutto; la fede vera esige anche altro: esige una qualità molto rara e difficile quale è la gratuità. La risposta al dono di Dio, che si concretizza nel servizio, deve essere dettata esclusivamente dall'amore e, come tale, non può che essere incondizionata. Scrive un autorevole commentatore di testi sacri: "La fede non recrimina, non esige, non è altezzosa; ma è piena di disponibilità, è attesa, è abbandono fiducioso...", il servizio a Dio, segno concreto di una fede viva e operosa, è un impegno libero da interessi: è gesto gratuito. Per spiegare cosa significhi "gratuità", Gesù racconta una parabola molto breve e semplice, nella quale si parla di un tale che ha un servo che si occupa dei campi e delle greggi; un servo che lavora duramente per tutta la giornata e che, una volta rientrato a casa, deve ancora servire il suo padrone e non certo mettersi a mensa con lui. All'apparenza il racconto è duro, soprattutto quando Gesù sottolinea il fatto che il padrone non ha alcun debito di gratitudine per il servo che lavora per lui: "Avrà forse gratitudine verso quel servo perché ha eseguito gli ordini ricevuti?" Il servo ha fatto semplicemente il suo dovere; e tale deve essere anche il nostro servizio: un dovere di amore e di riconoscenza verso Dio; un servizio che, se veramente è dettato dalla fede, è già per se stesso gratificante; questo significano quelle parole:"Anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare". E' chiaro: una fede così profonda, così grande, così viva, non è facile averla, ed ecco l'implorazione degli apostoli: "Signore, accresci in noi la fede!", un'implorazione che deve accompagnare tutta la nostra vita perché quel piccolo granello che Dio ha seminato nel nostro cuore germogli, cresca e sviluppi tutta la sua energia.