sabato 24 dicembre 2011

Natale 2011

 BUON NATALE!!!



Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, Figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a liberarci,
noi siamo sempre più schiavi:
E dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti,:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni, tu che ci ami:
nessuno è in comunione col fratello
se prima non è con te, o Signore.
Noi siamo tutti lontani, smarriti,
né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo.
Vieni, Signore. Vieni sempre, Signore.
(David Maria Turoldo)

lunedì 28 novembre 2011

Avvento 2011

Preghiera per l'avvento: VIENI SIGNORE GESU' 1.



Il Padre ti manda
nel mondo abitato da noi peccatori:

vieni, Tu, il Santo ed Immacolato,
che tutto trasformi con la tua Presenza.

- Vieni, Atteso dai secoli immersi nel buio,
riecheggianti promesse!

 vieni, Splendore,
che ai poveri rallegri il cuore!

- Ti attese Maria, la Tuttasanta,
per godere il prodigio annunciato!

 Ti attese Giovanni,
che gioì vedendoti togliere il peccato del mondo!

- Ti attende Adamo
per alzare lo sguardo con te al Padre,
che l'ama senza rimprovero.

Ti chiama lo Spirito,
per abbreviare i tempi della bruciante attesa.
- Vieni, Gesù, nella tua gloria

 per introdurci alle tue Nozze
profumate d'Amore.
- Ti chiama la Chiesa Sposa
che ti vuol donare la sua riconoscenza.


domenica 25 settembre 2011

Vangelo domenica 25 settembre 2011




Mt 21,28-32

Pentitosi andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. + Dal Vangelo secondo Matteo.

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
Parola del Signore



Omelia (25-09-2011)) padre Ermes Ronchi

 Gesù ha sempre fiducia in ogni uomo

Un uomo aveva due figli...
In quei due figli è rappresentato ognuno di noi, con in sé un cuore diviso, un cuore che dice «sì» e uno che dice «no», che dice e poi si contraddice: infatti non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio (Rm 7,15.19 ).
Il primo figlio che dice «no», è un ribelle; il secondo che dice «sì» e non fa', è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare. I due fratelli, pur così diversi, hanno qualcosa in comune: la stessa idea del padre come di un estraneo che impartisce ordini; la stessa idea della vigna come di una cosa che non li riguarda.
Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del figlio che ha detto no: «si pentì». Pentirsi significa «cambiare mentalità, cambiare il modo di vedere», di vedere il padre e la vigna. Il padre non è più un padrone da obbedire o da ingannare, ma il capo famiglia che mi chiama in una vigna che è anche mia, per una vendemmia abbondante, per un vino di festa per tutta la casa. E la fatica diventa piena di speranza.
Chi dei due ha fatto la volontà del padre? Questa volontà del padre, da capire bene, è forse di essere obbedito? No, è ben di più: avere figli che collaborino, come parte viva, alla gioia della casa, alla fecondità della terra.
La morale evangelica non è prima di tutto la morale dell'obbedienza, ma dei frutti buoni: «dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16). Frutti di bontà, libertà, gioia, amicizia, limpido cuore, perdono.
L'alternativa di fondo è tra un'esistenza sterile e una che invece trasforma una porzione di deserto in vigna, e la propria famiglia in un frammento del sogno di Dio. Anche se nessuno se ne accorge, anche lavando in silenzio i piedi di coloro che ci sono affidati, nel segreto della propria casa. Se agisci così fai vivere te stesso, dice il profeta Ezechiele nella prima lettura, sei tu il primo che ne riceve vantaggio.
Gesù prosegue con una delle sue parole più dure e consolanti: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Dura la frase, perché si rivolge a noi che a parole diciamo «sì», ci diciamo credenti, ma siamo sterili di opere buone. Cristiani di facciata o di sostanza?
Ma consolante, perché in Dio non c'è ombra di condanna, solo la promessa di una vita rinnovata per tutti. Dio ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia in noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Crede in noi, sempre! Allora posso cominciare la mia conversione. Dio non è un dovere: è amore e libertà. E un sogno di grappoli saporosi per il futuro del mondo.

venerdì 2 settembre 2011

La via della bellezza. Una sfida aperta

Dall'editoriale SamizdatOnline







Accade purtroppo con una certa frequenza che le notizie che ci raggiungono turbino la nostra pace e la nostra coscienza. E sono racconti e giudizi sulle gravi violenze nel mondo (e non cessa di stupirci la rassegnata e connivente documentazione che ce ne viene fornita. Basti pensare al modo con cui ci è stata raccontata la guerra in Libia…). Sono resoconti sulla continua persecuzione dei cristiani (che stenta a diventare problema di coscienza, con una sospetta assuefazione di troppi comunicatori). È il modo con cui si dà spazio ai vari indignados
che sembrano avere il diritto alle prime pagine prima e più che i milioni di giovani di Madrid, o le 800mila presenze di giovani e meno giovani del Meeting di Rimini. Mi accorgo che la lista del male si allunga in maniera considerevole.
Ma abbiamo pur detto (ed è la nostra filosofia di CulturaCattolica.it) che vogliamo essere voce (e forte) del bene presente, degli uomini e delle donne che, colla loro vita quotidiana, sanno essere all’origine di quella «civiltà della verità e dell’amore» tanto cara al grande Giovanni Paolo II. E ho davanti agli occhi ben più di uno di questi esempi, che con la loro vita sono il segno di una vittoria dell’umano, spesso resa possibile dalla fede vissuta (come non ricordare quanto il beato Giovanni Paolo II affermava nel campo di concentramento che aveva visto la fine del grande San Massimiliano Maria Kolbe: «“...Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1Gv 5,4). Queste parole della Lettera di San Giovanni mi vengono alla mente e mi penetrano nel cuore, quando mi trovo in questo posto in cui si è compiuta una particolare vittoria per la fede. Per la fede che fa nascere l’amore di Dio e del prossimo, l’unico amore, l’amore supremo che è pronto a “dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13; cf. Gv 10,11). Una vittoria, dunque, per l’amore, che la fede ha vivificato fino agli estremi dell’ultima e definitiva testimonianza. […] La vittoria mediante la fede e l’amore l’ha riportata quell’uomo in questo luogo, che fu costruito per la negazione della fede – della fede in Dio e della fede nell’uomo – e per calpestare radicalmente non soltanto l’amore, ma tutti i segni della dignità umana, dell’umanità. Un luogo, che fu costruito sull’odio e sul disprezzo dell’uomo nel nome di una ideologia folle. Un luogo, che fu costruito sulla crudeltà. […] In questo luogo del terribile eccidio, che recò la morte a quattro milioni di uomini di diverse nazioni, Padre Massimiliano, offrendo volontariamente se stesso alla morte nel bunker della fame per un fratello, riportò una vittoria spirituale simile a quella di Cristo stesso»?).
E allora, oggi, leggendo quello che Benedetto XVI ha detto nella Udienza del mercoledì del 31 agosto 2011, e che riporto qui sotto, mi sono detto: «Perché non raccogliere le tante testimonianze di quella «via della bellezza - via pulchritudinis» che ci possono sostenere nel cammino della vita, ridando all’uomo di oggi, in particolare ai giovani, il senso affascinante del compito della vita, della dignità del vivere, che tanto ci caratterizza?»
Col sito CulturaCattolica.it ci proponiamo di ospitare e di comunicare tutto ciò che ci conforterà in questo cammino. All’opera dunque, raccontateci della bellezza che vi ha mosso nella vita! Sarete nostri graditi ospiti!
«Oggi vorrei soffermarmi brevemente su uno di questi canali che possono condurci a Dio ed essere anche di aiuto nell’incontro con Lui: è la via delle espressioni artistiche, parte di quella “via pulchritudinis” – “via della bellezza” - di cui ho parlato più volte e che l’uomo d’oggi dovrebbe recuperare nel suo significato più profondo. Forse vi è capitato qualche volta davanti ad una scultura, ad un quadro, ad alcuni versi di una poesia, o ad un brano musicale, di provare un’intima emozione, un senso di gioia, di percepire, cioè, chiaramente che di fronte a voi non c’era soltanto materia, un pezzo di marmo o di bronzo, una tela dipinta, un insieme di lettere o un cumulo di suoni, ma qualcosa di più grande, qualcosa che “parla”, capace di toccare il cuore, di comunicare un messaggio, di elevare l’animo. Un’opera d’arte è frutto della capacità creativa dell’essere umano, che si interroga davanti alla realtà visibile, cerca di scoprirne il senso profondo e di comunicarlo attraverso il linguaggio delle forme, dei colori, dei suoni. L’arte è capace di esprimere e rendere visibile il bisogno dell’uomo di andare oltre ciò che si vede, manifesta la sete e la ricerca dell’infinito. Anzi, è come una porta aperta verso l’infinito, verso una bellezza e una verità che vanno al di là del quotidiano. E un’opera d’arte può aprire gli occhi della mente e del cuore, sospingendoci verso l’alto». [Benedetto XVI, Udienza del 31 agosto 2011]

sabato 27 agosto 2011

Santa Monica, Madre di S. Agostino



(memoria)

M
onica nacque nel 331 a Tagaste, antica città della Numidia, odierna Souk-Ahras (Algeria), in una famiglia profondamente cristiana e di buone condizioni economiche. Le fu concesso di studiare e ne approfittò per leggere la Bibbia e meditarla.
Sposatasi con Patrizio, un modesto proprietario di Tagaste, non ancora battezzato, il cui carattere non era buono, e che spesso le era infedele, con il suo carattere mite e dolce ne poté vincere le asprezze.
Dette alla luce il figlio primogenito Agostino nel 354. Ebbe un altro figlio, Naviglio, e una figlia di cui si ignora il nome. Dette a tutti e tre un'educazione cristiana.

Nel 371 Patrizio si convertì al cristianesimo e fu battezzato; morirà l'anno seguente. Monica aveva 39 anni e dovette prendere in mano la direzione della casa e l'amministrazione dei beni. Soffrì molto per la condotta dissoluta di Agostino. Quando egli si trasferì a Roma, decise di seguirlo, ma lui, con uno stratagemma, la lasciò a terra a Cartagine, mentre s'imbarcavano per Roma.

Quella notte Monica la passò in lacrime sulla tomba di S. Cipriano; pur essendo stata ingannata, ella non si arrese ed eroicamente continuò la sua opera per la conversione del figlio.
Nel 385 s’imbarcò anche lei e lo raggiunse a Milano, dove nel frattempo Agostino, disgustato dall’agire contraddittorio dei manichei di Roma, si era trasferito per ricoprire la cattedra di retorica.
Qui Monica ebbe la consolazione di vederlo frequentare la scuola di S. Ambrogio, vescovo di Milano e poi il prepararsi al battesimo con tutta la famiglia, compreso il fratello Navigio e l’amico Alipio; dunque le sue preghiere erano state esaudite. Il vescovo di Tagaste le aveva detto: “È impossibile che un figlio di tante lacrime vada perduto”.

Monica restò al fianco del figlio consigliandolo nei suoi dubbi e infine, nella notte di Pasqua, 25 aprile 387, poté vederlo battezzato insieme a tutti i familiari. Ormai cristiano convinto profondamente, Agostino non poteva rimanere nella situazione coniugale esistente. Secondo la legge romana, egli non poteva sposare la sua ancella convivente, perché di ceto inferiore, e alla fine, con il consiglio di Monica, ormai anziana e desiderosa di una sistemazione del figlio, si decise di rimandare, con il suo consenso, l’ancella in Africa, mentre Agostino avrebbe provveduto per lei e per il figlio Adeodato, rimasto con lui a Milano.
A questo punto Monica pensava di poter trovare una sposa cristiana adatta al ruolo, ma Agostino, con sua grande e gradita sorpresa, decise di non sposarsi più, ma di ritornare anche lui in Africa per vivere una vita monastica, anzi fondando un monastero.

La troviamo poi accanto al figlio a Cassiciaco, presso Milano, discutendo con lui ed altri familiari di filosofia e cose spirituali, e partecipando con sapienza ai discorsi, al punto che Agostino volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre. La cosa suonò inusuale, perché all'epoca alle donne non era permesso prendere la parola.

Con Agostino lasciò Milano diretta a Roma, e poi a Ostia, dove affittarono una casa, in attesa di una nave in partenza per l'Africa. Fu un periodo carico di dialoghi spirituali, che Agostino ci riporta nelle sue Confessioni.
Lì si ammalò, forse di malaria, e morì, in nove giorni, il 27 agosto 387 all'età di 56 anni. Il suo corpo fu tumulato nella chiesa di Sant'Aurea di Ostia.
Il 9 aprile 1430 le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di S. Trifone, oggi di S. Agostino, e poste in un pregiato sarcofago, opera di Isaia da Pisa (XV secolo).
La Chiesa cattolica ne celebra la memoria il 27 agosto (anteriormente si celebrava il 4 maggio), il giorno prima di quella di S. Agostino, che, coincidentemente, morì un 28 agosto.

Significato del nome Monica : "monaca, solitaria, eremita" (greco).


sabato 20 agosto 2011

XXI Domenica tempo ordinario



Vangelo secondo Matteo (16,13-20)
Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?”. Risposero: “Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti”. Disse loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Rispose Simon Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”. Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

Commento
La liturgia domenicale ha presentato già questo brano ma, mentre precedentemente l’accento era posto sulla incapacità di Pietro di comprendere un Messia sconfitto, in questa giornata domenicale si mostra la capacità di Pietro di vedere in Gesù l’inviato da Dio e di professare la sua fede di fronte al mondo. Tutto questo viene da Dio, e la fede del discepolo, la sua accoglienza della chiamata e della vocazione divina, la sua professione di fede colgono esattamente nel segno di ciò che Gesù vuole per la sua chiesa. Tutti questi, infatti, possono essere visti come i fondamenti della missione petrina, l’incarico rivoltogli di fondare e proteggere la Chiesa del Signore. E’ altrettanto chiaro che questo incarico, rivolto a Pietro in modo particolare ed unico, non si esaurisce nell' episcopato, ma si rivolge ad ogni cristiano; a tutti ed a ciascuno viene richiesto ciò che Pietro manifesta in questo brano.
.Il mandato di Pietro e la conseguente istituzione della chiesa è ciò che la nostra società contemporanea ha maggiormente contestato; in molti sorge l’esigenza di rivolgersi a Dio senza internmediari, senza collegamenti privilegiati e sanza incaricati specifici. Eppure il testo è chiaro (ripreso anche in Gv 20): agli apostoli ed ai loro successori viene conferito un compito speciale e particolare che può essere visto anche come un insegnamento per ciascuno di noi. A nessuno infatti è consentito rivolgersi a Dio senza l’aiuto dei fratelli, senza l’approvazione e il beneplacito della comunità; nessuno si salva da solo, nemmeno con Dio solo. Il Signore ha voluto che la comnità svolgesse questo ruolo salvifico, più vicno, più prossimo. Ancora una volta dono e responsabilità; ancora una volta Dio ed i fratelli inscindibilmente uniti.Con la Grazia di Dio non dobbiamo salvare noi stessi; dobbiamo salvare il mondo!



lunedì 25 luglio 2011

Appello

Chiudere gli occhi .. non serve

"Sine tuo numine nihil est in homine nihil est innoxium". Senza di te nulla c'è nell'uomo che non gli provochi danno.
Le nostre piccole beghe politiche italiane, il terribile attentato norvegese, il recentissimo terremoto giapponese, la perdurante guerra libica, confermano che siamo di una fragilità spaventosa, possediamo di nostro solo l'incapacità di far fronte a qualsiasi evento in modo adeguato.
Da una settimana appena siamo a conoscenza di un dramma che dura da due anni. Ce l'ha svelato il Papa, che - con un APPELLO - ha chiesto a tutti di farsene carico. Dopo di che si è mossa anche l'ONU.
Cinque stati africani (Sud Sudan, Kenya, Etiopia, Gibuti e Somalia) sono nella morsa della siccità e della fame, milioni di persone che vagano in cerca di aiuto e sollievo, bambini scheletriti che agonizzano in braccio alle mamme, volontari che cercano di fare quello che possono.
Acqua, fame, migrazioni, povertà, abbandono.
Sicuri nelle nostre case, certi dello stipendio o protetti dal guscio di plastica e metallo delle nostre auto, sazi di un affetto passeggero o provvisoriamente stabile, ci illudiamo di potere tutto, di lamentarci, contestare, di chiudere la porta in faccia a chi chiede e aspetta.
Ogni cosa domanda: "Perché non io?" "Che senso ha?" "Cosa vuoi da me?". Nelle parole tanto amate da Madre Teresa, Gesù dalla croce dice  "Ho sete".
Lo stesso Signore del mondo chiede. Non si tratta di generosità. S. Agostino ammonisce che nel donare restituiamo semplicemente a chi è nel bisogno ciò che è suo, perché ogni cosa che abbiamo è donata a noi tutti dall'unico Padrone di tutto.
Per questo aderiamo all'invito di AVSI-AGIRE

domenica 24 luglio 2011

XVII domenica del tempo ordinario - ciclo A


VANGELO (Mt 13,44-52)
Vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti.
Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».
Parola del Signore.


OMELIA
San Tommaso d'Aquino, il grande teologo del Medioevo, utilizza un'immagine: noi uomini siamo come una freccia già in piena corsa. Un altro ha preso la mira e ha tirato. Non spetta più a noi cercare un obiettivo: è già stabilito. E dove va questa freccia di cui il Creatore ha stabilito l'obiettivo? Ecco la risposta: la freccia corre verso il bene, e dunque verso la felicità. Dio, e la felicità di essere presso di lui, corrispondono alla più profonda aspirazione dell'uomo. Qui non vi è nulla di imposto, nessun compito da fare come penso, nessun passaggio a gincana, non dobbiamo stringere i denti. Come il ruscello scorre naturalmente verso il mare, così l'uomo è in cammino verso Dio. Questo insegnamento sugli uomini si trova nella parabola di Gesù che ci presenta il Vangelo. È riassunto in sette righe di una semplicità geniale. Il Regno dei cieli è proprio ciò che si cerca nel profondo del cuore. È come un tesoro di cui si scopre l'esistenza. È come una perla, la perla delle perle che il mercante ha cercato per tutta la sua vita. Se il mercante raggiunge il suo obiettivo, non è grazie alla sua tenacia, ma perché ciò gli è concesso in dono. Tuttavia il regno dei cieli non ci è tirato in testa. Bisogna impegnarsi personalmente, essere pronti anche a sacrificare tutto. Ma non per una cosa estranea. È ciò che abbiamo di più personale, e al tempo stesso un dono. E bisogna saper cogliere questo dono; bisogna essere pronti. Quando si raggiunge l'obiettivo, non bisogna crollare come dopo un eccesso di sforzo, ma esultare di indescrivibile gioia.
Il segreto del cristianesimo può essere espresso in un'immagine di sette righe. Ce ne vogliono un po' di più ai predicatori! Quanto a ciascuno di noi, ci vuole tutta una vita per capirlo.


MEDITAZIONE
Bisogna che voi amiate Dio con sapienza, e per ciò bisogna che siate sapienti. Sarete sapienti se sarete poveri e senza desiderio delle cose del mondo, se vi disprezzerete per amore di Cristo e se metterete al suo servizio tutta la vostra intelligenza e tutte le vostre forze. Alcuni sembrano sapienti e non sono che folli, poiché dissipano tutta la loro sapienza nella cupidigia e nelle preoccupazioni del mondo. Se vedeste un uomo che possiede pietre preziose in quantità sufficiente ad acquistare un regno, e che le scambia per una mela come farebbe un bambino, direste, a ragione, che non è un sapiente ma un folle. Ora, noi possiamo, se lo vogliamo, acquistare le pietre preziose della penitenza, della povertà e del lavoro spirituale, e, per mezzo di esse, il regno dei cieli. Se infatti voi amate la povertà, se disprezzate le ricchezze e le delizie del mondo, se vi considerate poveri e miserabili, otterrete attraverso questa povertà una ricchezza infinita. E così, se vi dispiacete per i vostri peccati, se siete tristi di vedere il vostro esilio prolungarsi e se rinunciate a tutte le consolazioni di questa vita, al posto di questa tristezza riceverete le gioie del cielo.
RICHARD ROLLE

Fonte

sabato 9 luglio 2011

Quindicesima Domenica del Tempo Ordinario -Ciclo A




Sacra Scrittura
I Lettura: Is 55,10-11;
Salmo: Sal 64;
II Lettura: Rm 8, 18-23;
Vangelo: Mt 13, 1-23

VANGELO (Mt 13,1-23)
Il seminatore uscì a seminare.
+ Dal Vangelo secondo Matteo

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».
Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono.
Così si compie per loro la profezia di Isaìa che dice:“Udrete, sì, ma non comprenderete,guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!”.
Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono!
Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l’accoglie subito con gioia, ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

Parola del Signore.


 Traccia di P. Octavio Ortiz L. C.

Nesso tra le letture
La liturgia di questa domenica si muove come un pendolo tra due verità importanti. Da una parte, si sottolinea l’efficacia della Parola di Dio. Tutto quello che Dio dice è vero e troverà il suo compimento al momento opportuno. Essa, la Parola di Dio, discende dal cielo come pioggia che bagna e feconda la terra (prima lettura). Dall’altra, appare evidente la necessità che il terreno sia ben preparato ad accogliere il seme e produrre frutto. Benché il seminatore semini a spaglio e con autentica generosità, e nonostante il seme abbia una propria virtualità, è necessario che la terra sia preparata e ben disposta (Vangelo). Il tema è di grande interesse: si tratta della collaborazione tra la grazia di Dio e l’apporto della libertà umana. Una comprensione esatta e profonda della liturgia di oggi, conduce senza dubbio ad una vita cristiana più autentica e più impegnata, fondata sull’efficacia della Parola di Dio, ma al contempo responsabile dei doni ricevuti e della necessità di produrre frutto. Da parte sua, il testo della lettera ai romani ci mostra che la creazione intera è in attesa della piena manifestazione dei figli di Dio. Ci troviamo in una situazione paradossale: l’uomo è stato già salvato e redento dall’opera di Cristo, ma gli resta ancora di intraprendere il suo peregrinare per la terra, verso il possesso pieno di Dio. "Già, ma non ancora". L’immagine di un parto che provoca simultaneamente gioia e dolore, esprime adeguatamente la situazione del cristiano: possiede le primizie dello spirito, ma geme fino ad arrivare alla redenzione del suo corpo (seconda lettura).

Messaggio dottrinale
1. La Parola di Dio è efficace
La Parola di Dio rivela, ma contemporaneamente opera quello che rivela. Essa è vera ed è efficace. Questa seconda caratteristica è quella che appare più chiaramente nel testo di Isaia che oggi consideriamo. L’immagine, presa della vita del campo, è particolarmente suggestiva e penetrante: la pioggia e la neve cadono dal cielo, ma prima di tornarvi nuovamente, fecondano la terra e producono frutto abbondante. Allo stesso modo la Parola di Dio discende dal cielo, ma non vi ritorna senza portare frutto. Questa affermazione è di grande consolazione per chi ha in somma stima la Parola di Dio e la medita "giorno e notte". Possiamo affermare che tutta la Bibbia è attraversata da questa verità. Su di essa si fonda la speranza del popolo, soprattutto nei momenti di maggior angoscia e avversità, perché la Parola di Dio non può rimanere incompiuta. Il testo di Isaia si inquadra nel periodo della dura prova dell’esilio, di fronte alla quale Israele medita la promessa del Signore: Dio ha promesso la liberazione dall’esilio come un nuovo esodo; non si può dubitare che questo avverrà, perché Dio compie ciò che promette. La sua parola non è vana, ma efficace. Questa Parola possiede, inoltre, una dimensione creativa. Produce una nuova realtà che prima non esisteva, e che fa nuove tutte le cose.
Il salmo 32 spiega questa verità:
"Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera.
[...] perché egli parla e tutto è fatto,
comanda e tutto esiste".
Sal. 32, 6,9.
Così la Parola di Dio è creatrice. Creatrice della storia, specialmente della storia dela salvezza. In ogni istante ha il potere di creare, di dare la vita, di offrire la salvezza. In realtà questa Parola di Dio è il suo piano salvifico, è l’espressione del suo amore che si è realizzato nella sua alleanza con Abramo (la promessa di una discendenza numerosa – e la promessa della terra), con Mosè (l’Alleanza sinaítica costituisce il popolo e dimostra la vicinanza del Signore). Questa alleanza trova la sua massima espressione in Gesù Cristo, la Verbo di Dio fatto carne. Egli ci manifesta l’amore del Padre e ci manda il suo Spirito per portare a compimento il piano di salvezza nel suo corpo che è la Chiesa.
2. Il seminatore e la speranza
L’esperienza umana ci dimostra che, con la semina, nasce la speranza del seminatore. La semina ha la sua origine e la sua radice nella speranza, perché nessuno seminerebbe se non nutrisse la fiducia di raccogliere frutto un giorno; ma allo stesso tempo, la semina alimenta la speranza. Quando il seminatore si mette a lavorare alla preparazione della terra e allo spargimento del seme, il suo spirito si riempie di speranza e di gioia, vedendo realizzata nel futuro la promessa del suo lavoro. In questo modo, il seminatore fissa il suo sguardo non tanto sul lavoro presente, pieno di fatica e di sudore, bensì sul futuro che promette un prezioso raccolto.
La fecondità di cui ci parla la parabola del Signore è simbolica. In realtà, nel suolo della Palestina la fertilità della terra dà, al massimo, il dieci per uno. Quindi, parlare del trenta, sessanta e cento per uno, suppone una fertilità che supera di molto le possibilità della terra stessa, e assume piuttosto un carattere simbolico. Dunque, il seminatore lancia il suo seme a spaglio, e sa che parte del suo seme si perde, cade in terra infertile, resta al margine della strada, o lo mangiano gli uccelli, o cade tra pietre e spine... Tuttavia, non per questo smette di seminare; ben al contrario, quanto maggiore possa essere il rischio che il terreno non produca secondo le aspettative, tanto maggiore sarà l’impegno a seminare con la più ampia generosità. Cattivo seminatore sarebbe colui che conservasse il seme nel sacco per paura che si perda tra i pericoli. Deve affrontare con pienezza di coraggio i rischi del terreno e deve continuare a seminare, perché solamente con una semina generosa potrà aspettarsi un raccolto rigoglioso.
Il dato splendido della parabola è che nonostante che il terreno sia irregolare e non offra eccessive garanzie, il seminatore lancia comunque il suo seme e, alcuni mesi più tardi, il seme incomincia a produrre il suo frutto, dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno. Questo conferma che il seminatore aveva ragione a seminare con generosità e gran sacrificio. È stato saggio a non risparmiare sforzo alcuno e a sfruttare con intelligenza il tempo disponibile. Un seminatore che, prevedendo che parte del suo seme rimarrà fuori della strada, rinunciasse a seminare ed a tentare nuove strade, si comporterebbe da insensato. Manifesterebbe scarsa fiducia nella capacità del seme di vincere gli ostacoli e crescere, perfino in quei posti dove la terra non assicura neppure il trenta per uno. In realtà, il seminatore non può smettere di seminare. È qui che si rivela la profondità di vita di quegli uomini, i santi, che non si concedono riposo nella loro opera apostolica. Ci sorprende osservare quante e quanto preziose opere hanno messo in piedi in archi relativamente brevi di tempo. Pensiamo per esempio a san Tommaso d’Aquino e la sua Summa Theologiae, o a san Giovanni Bosco che fondò innumerevoli istituzioni a favore dei giovani, in breve tempo. Il mondo attende sempre la manifestazione dei Figli di Dio.

lunedì 27 giugno 2011

Solennità del Corpus Domini

Commento al Vangelo della Solennità del Corpus Domini
di Monsignor Giovanni Scognamilio Clá Dias, fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of http://www.salvamiregina.it/default.asp
 
Un insuperabile dono...
L’amore di Dio per gli uomini, manifestato nell’Incarnazione, ha raggiunto un apice inimmaginabile con l’istituzione dell’Eucaristia. Qual è la nostra risposta ad un così grande dono?
Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
 
 
 
Vangelo
"In quel tempo, Gesù disse alle moltitudini dei giudei: 51 ‘Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo’.
52 Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: ‘Come può costui darci la sua carne da mangiare?’. 53 Allora Gesù disse: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno’" (Gv 6, 51-58).
 
I – Dio Si dà interamente
Esistendo da tutta l’eternità, la Trinità non aveva bisogno della creazione. Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo bastavano del tutto a se stessi, godendo una felicità perfetta e infinita. In questo consiste la gloria intrinseca e insuperabile delle Tre Persone Divine. Tuttavia, creando, Dio ha voluto rendere le creature partecipi della sua felicità, e queste, nell’assomigliare al Creatore, Gli avrebbero reso la gloria estrinseca, realizzando così la più alta finalità del loro essere. La creazione è stata, dunque, un atto di donazione, di dedizione e di generosità supreme (1), arricchito in seguito dall’Incarnazione del Verbo, quando Dio Si è assoggettato ad assumere la povera natura umana allo scopo di redimerci dal peccato dei nostri primi padri.
L’Uomo-Dio avrebbe dovuto prolungare la sua presenza sulla Terra
Ma l’amore incommensurabile di Dio per noi non si è limitato solo a questo: per aprirci le porte del Cielo, è arrivato al punto da soffrire una dolorosa Passione, morire sulla Croce e risorgere. E lo avrebbe fatto, se fosse stato necessario, per riscattare un uomo soltanto. Ora, dobbiamo chiederci: dopo aver espresso questo amore incredibile per noi, Egli avrebbe semplicemente dovuto salire al Cielo e abbandonare la comunione con gli uomini la cui redenzione Gli era costata così cara? Sarebbe possibile immaginare, dopo una tale unione con noi, che si verificasse questa irrimediabile separazione?
La meravigliosa soluzione a questo problema, che ci lascia perplessi, solo Dio poteva trovarla. Commenta bene, a tal proposito, il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira:
"Non voglio dire che la Redenzione e il sacrificio della Croce imponessero a Dio, a rigor di logica, l’istituzione della Sacra Eucaristia. Ma si può dire che tutto invocava, tutto urlava, tutto supplicava perché Nostro Signore non Si separasse così dagli uomini. Una persona con un po’ di immaginazione dovrebbe intravvedere che Nostro Signore avrebbe trovato un mezzo per essere sempre presente, con ciascuno degli uomini da Lui redenti, in modo tale che, dopo l’Ascensione, Egli fosse sempre in Cielo, sul trono di gloria che Gli è dovuto, ma allo stesso tempo, seguisse passo passo la via dolorosa di ogni uomo qui sulla Terra, fino al momento estremo in cui ognuno dicesse, a sua volta ‘Consummatum est’ (Gv 19, 30)" (2).
Conclude con questa pia confidenza: "Credo che se io avessi assistito alla Crocifissione e avessi saputo dell’Ascensione, anche se non avessi saputo dell’Eucaristia, avrei cominciato a cercare Gesù Cristo in tutta la Terra, perché non sarei riuscito a convincermi che Lui avesse smesso di convivere con gli uomini. Questa comunione veramente meravigliosa di Gesù Cristo con gli uomini si fa, esattamente, per mezzo dell’Eucaristia" (3)
Il fatto che Dio abbia operato la Creazione per darSi a Se stesso già ci riempie di meraviglia. Molto di più, tuttavia, è il fatto che Lui abbia assunto la natura umana per propiziarci, con la sua morte, l’infinito dono della vita soprannaturale e aprirci le porte del Cielo. Tuttavia, portare l’amore al punto di darSi agli uomini in alimento, supera qualunque capacità di immaginazione! Si può dire a ragione che l’apice di questa donazione, si trova nel Sacramento dell’Eucaristia.
Apparente semplicità della Santa Cena
Come avvenne l’istituzione del più eccellente e sublime dei Sacramenti, il fine a cui si ordinano tutti gli altri apparentemente, in un modo molto semplice. Per gli Apostoli, si trattava di una delle solite cene, celebrate ogni anno dai giudei secondo il plurisecolare rito indicato dettagliatamente da Dio a Mosè e Aronne, come qualcosa da esser perpetuato di generazione in generazione (cfr. Es 12, 1-14). Essa ricordava ai giudei la Pasqua del Signore, la morte dei primogeniti dell’Egitto e la traversata del Mar Rosso. I discepoli erano, pertanto, dell’idea che si trattasse di una semplice commemorazione religiosa, quando di fatto si sarebbe realizzato nel Cenacolo quanto era stato prefigurato nell’Antica Legge: il sacrificio di animali avrebbe ceduto il posto all’olocausto dell’Agnello Divino che tra breve sarebbe stato immolato sull’altare della Croce, per la nostra salvezza. Le vittime materiali simbolizzavano il corpo di Cristo che sarebbe stato nel contempo sacerdote e vittima nel Nuovo Sacrificio, eterno e di valore infinito.
Secondo quanto riferiscono gli Evangelisti, dopo che Gesù ebbe istituito l’Eucaristia e dato la Comunione agli Apostoli, essi cantarono i salmi e uscirono alla volta del Monte degli Ulivi (cfr. Mc 14, 26; Mt 26, 30). Costituivano questi salmi il canto di rendimento di grazie intitolato Hallel – "Lodate Javé" –, proprio della liturgia ebraica per la celebrazione della Pasqua (5) e particolarmente simbolico in quella circostanza: mentre gli uni rendevano grazie per essersi comunicati, il Messia rendeva lode al Padre per l’istituzione dell’Eucaristia, che rappresentava la concretizzazione dell’anelito manifestato all’inizio della Sacra Cena: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione" (Lc 22, 15).
Se avessero saputo con anticipo la grandezza di quello che sarebbe stato istituito quel giorno – non solo l’Eucaristia, ma anche il Sacerdozio –, c’è da supporre che gli Apostoli avrebbero preparato una cerimonia all’altezza, ma in quel momento, chi aveva nozione di quanto stava succedendo? 

 

lunedì 20 giugno 2011

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Domenica 19 giugno 2011

Ragioni della festa e della sua tarda istituzione.

Abbiamo visto gli Apostoli nel giorno della Pentecoste ricevere lo Spirito Santo e, fedeli all'ordine del Maestro (Mt 28,19) partire subito per andare ad ammaestrare tutte le genti, e battezzare gli uomini nel nome della Santissima Trinità. Era dunque giusto che la solennità che ha per scopo di onorare il Dio unico in tre persone seguisse immediatamente quella della Pentecoste alla quale è unita da un misterioso legame. Tuttavia, solo dopo lunghi secoli essa è venuta a prender posto nell'Anno liturgico, che si va completando nel corso del tempo.
Tutti gli omaggi che la Liturgia rende a Dio hanno per oggetto la divina Trinità. I tempi sono per essa così come l'eternità; essa è l'ultimo termine di tutta la nostra religione. Ogni giorno ed ogni ora le appartengono. Le feste istituite per commemorare i misteri della nostra salvezza finiscono sempre ad essa. Quelle della Santissima Vergine e dei Santi sono altrettanti mezzi che ci guidano alla glorificazione del Signore unico nell'essenza e triplice nelle persone; quanto all'Ufficio divino della Domenica in particolare, esso offre ogni settimana l'espressione formulata in modo particolare, dell'adorazione e dell'omaggio verso questo mistero, fondamento di tutti gli altri e sorgente di ogni grazia.
Si comprende così perché la Chiesa abbia tardato tanto ad istituire una festa speciale in onore della Santissima Trinità. Mancava del tutto la ragione ordinaria che motiva l'istituzione delle feste. Una festa è la fissazione di un fatto che è avvenuto nel tempo e di cui è giusto perpetuare il ricordo e la risonanza: ora, da tutta l'eternità, prima di qualsiasi creazione, Dio vive e regna, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Questa istituzione non poteva dunque consistere se non nel fissare sul Calendario un giorno particolare in cui i cristiani si sarebbero uniti in un modo per così dire più diretto nella solenne glorificazione del mistero dell'Unità e della Trinità in una stessa natura divina.

Storia della festa.
Il pensiero si presentò dapprima ad alcune di quelle anime pie e raccolte che ricevono dall'alto il presentimento delle cose che lo Spirito Santo compirà più tardi nella Chiesa. Fin dal secolo VIII, il dotto monaco Alcuino, ripieno dello spirito della Liturgia, credette giunto il momento di redigere una Messa votiva in onore del mistero della Santissima Trinità. Sembra pure che vi sia stato spinto da un desiderio dell'apostolo della Germania, san Bonifacio. La Messa costituiva semplicemente un aiuto alla pietà privata, e nulla lasciava prevedere che ne sarebbe derivata un giorno l'istituzione di una festa. Tuttavia la devozione a questa Messa si estese a poco a poco, e la vediamo accettata in Germania dal Concilio di Seligenstadt, nel 1022.
Ma a quell'epoca in una chiesa del Belgio era già in uso una festa propriamente detta della Santissima Trinità. Stefano, vescovo di Liegi, aveva istituito solennemente la festa della Santissima Trinità nella sua Chiesa nel 920, e fatto comporre un Ufficio completo in onore del mistero. A quei tempi non esisteva ancora la disposizione del diritto comune che riserva alla Santa Sede l'istituzione delle nuove feste, e Richiero, successore di Stefano nella sede di Liegi, tenne in piedi l'opera del suo predecessore.
Essa si estese a poco a poco, e pare che l'Ordine monastico le sia stato subito favorevole; vediamo infatti fin dai primi anni del secolo XI, Bernone, abate di Reichenau, occuparsi della sua propagazione. A Cluny, la festa si stabilì abbastanza presto nel corso dello stesso secolo, come si può vedere dall'Ordinario di quel monastero redatto nel 1091, in cui essa si trova menzionata come istituita già da un certo tempo.
Sotto il pontificato di Alessandro II (1061-1073), la Chiesa Romana, che ha spesso sanzionato, adottandoli, gli usi delle chiese particolari, dovette esprimere un giudizio su questa nuova festa. Il Pontefice, in una delle sue decretali, pur costatando che la festa è già diffusa in molti luoghi, dichiara che la Chiesa Romana non l'ha accettata per il fatto che ogni giorno l'adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto, e in tante altre formule di lode.
Tuttavia la festa continuava a diffondersi, come attesta il Micrologio; e nella prima parte del secolo XII, l'abate Ruperto affermava già la convenienza di quella istituzione, esprimendosi al riguardo come faremmo oggi noi: "Subito dopo aver celebrato la solennità della venuta dello Spirito Santo, cantiamo la gloria della Santissima Trinità nell'Ufficio della Domenica che segue, e questa disposizione è molto appropriata poiché subito dopo la discesa di quel divino Spirito cominciarono la predicazione e la fede e, nel battesimo, la fede, la confessione del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Dei divini Uffici, l. xii, c. i).
In Inghilterra l'istituzione della festa della Santissima Trinità ebbe come autore principale il martire san Tommaso di Cantorbery. Fu nel 1162 che egli la istituì nella sua Chiesa, in ricordo della sua consacrazione episcopale che aveva avuto luogo la prima Domenica dopo la Pentecoste. Per la Francia troviamo nel 1260 un concilio di Arles presieduto dall'arcivescovo Florentin, che nel suo sesto canone inaugura solennemente la festa aggiungendovi il privilegio d'una Ottava. Fin dal 1230 l'ordine dei Cistercensi, diffuso nell'intera Europa, l'aveva istituita per tutte le sue case; e Durando di Mende, nel suo Razionale, lascia concludere che il maggior numero delle Chiese latine, durante il secolo XIII usava già la celebrazione di questa festa. Fra tali Chiese ve ne erano alcune che la ponevano non alla prima bensì all'ultima Domenica dopo la Pentecoste e altre che la celebravano due volte: una prima all'inizio della serie delle Domeniche che seguono la solennità di Pentecoste, e una seconda volta alla Domenica che precede immediatamente l'Avvento. Questo uso era mantenuto in modo particolare dalle Chiese di Narbona, di Le-Mans e di Auxerre.
Si poteva sin d'allora prevedere che la Santa Sede avrebbe finito per sanzionare una istituzione che la cristianità desiderava di vedere stabilita dappertutto. Giovanni XXII, che occupò la cattedra di san Pietro fino al 1334, completò l'opera con un decreto nel quale la Chiesa Romana accettava la festa della Santissima Trinità e la estendeva a tutte le Chiese.
Se si cerca ora il motivo che ha portato la Chiesa, guidata in tutto dallo Spirito Santo, ad assegnare così un giorno speciale nell'anno per rendere un solenne omaggio alla divina Trinità, quando tutte le nostre adorazioni, tutti i nostri ringraziamenti, tutti i nostri voti salgono in ogni tempo verso di essa, lo si troverà nella modificazione che si andava introducendo allora nel calendario liturgico. Fin verso il 1000, le feste dei santi universalmente onorati erano molto rare. Da quell'epoca appaiono in maggior numero, ed era da prevedere che si sarebbero moltiplicate sempre di più. Sarebbe giunto il tempo - e sarebbe durato per secoli - in cui l'Ufficio della Domenica che è consacrata in modo speciale alla Santissima Trinità, avrebbe ceduto spesso il posto a quello dei Santi riportati dal corso dell'anno. Si rendeva dunque necessario, per legittimare in qualche modo questo culto dei servi nel giorno consacrato alla suprema Maestà, che almeno una volta nell'anno la Domenica offrisse l'espressione piena e diretta di quella religione profonda che l'intero culto della santa Chiesa professa verso il sommo Signore, che si è degnato di rivelarsi agli uomini nella sua unità ineffabile e nella sua eterna Trinità.


lunedì 13 giugno 2011

In cammino verso loreto

 Cari amici, vi propongo l'omelia di S.E.R. Mons. Jean Bruges che ha presieduto la Santa Messa prima dell'inizio del 33^  pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto.




Nel giorno della Pentecoste


 Il filosofo e il mendicante
Si constàta con soddisfazione che i pellegrinaggi non hanno mai attirato tanta gente come ai nostri giorni. Io stesso, che sono nato a circa venticinque chilometri da Lourdes, posso testimoniare che le folle di pellegrini non sono state mai così numerose. E’ davvero una cosa stupefacente: più le nostre società si secolarizzano, e si comportano, per riprendere le parole del nostro Papa, «come se Dio non esistesse», e più le manifestazioni di devozione semplice e fervente, in una parola popolare, attirano un numero crescente di persone appartenenti a tutte le categorie sociali. I giovani non sono gli ultimi a unirsi a queste manifestazioni, al contrario. Giovanni Paolo II, beatificato appena un mese fa, ha avuto questa idea geniale di proporre ai giovani una forma rinnovata di pellegrinaggio con le Giornate mondiali della gioventù. Approfitto per invitare i giovani presenti questa sera a raggiungerci presto a Madrid per Giornate che promettono di essere particolarmente riuscite: pensate che si attendono più di due milioni di giovani provenienti da tutto il mondo!
Anche qui, a Loreto, è veramente spettacolare! Ho molto predicato nella mia vita di domenicano, poi di vescovo, ma mai mi sono trovato davanti a una tale affluenza: ottantamila persone, mi dicevano gli organizzatori! Posso confidarvi che un’assemblea del genere mi impressiona un po’? Sono intimidito, tanto più che è la prima volta nella mia vita che vengo in questo luogo, mentre la maggior parte di voi, in particolare i membri di Comunione e liberazione, sono diventati dei fedeli abituali. Perciò ho pensato di parlare di Loreto attraverso due Francesi, due personaggi stupefacenti e che sono diventati per me, malgrado la distanza storica, come dei familiari.
Il primo è un filosofo; voi avete sicuramente sentito parlare di lui: è il grande Cartesio. Colui che ha fondato la filosofia moderna, e quindi in un certo senso la modernità stessa; colui che si vede presentato spesso come uno spirito razionalista, critico contro ogni forma di tradizione, è rimasto, nonostante tutto ciò che si dice, un cristiano convinto per tutta la durata della sua esistenza. Nella notte dal 10 all’11 novembre 1619, infatti, Cartesio ha avuto una specie di rivelazione mistica: tre angeli gli sono apparsi in sogno e gli hanno fatto vedere che era destinato a unificare tutte le conoscenze umane grazie ad una “scienza ammirabile” di cui sarebbe l’inventore. Dopo questa notte, il filosofo fece il voto di venire in pellegrinaggio a Loreto, da una parte per rendere grazie di questa specie di missione che credeva gli fosse stata affidata, e dall’altra per raggiungere, attraverso un contatto fisico con la casa della Vergine, la Madre del Logos, Colui per mezzo del quale tutto è stato fatto, come ripeteremo tra poco cantando il Credo: egli fece il viaggio appositamente nel 1623.
Si può dunque essere moderno e compiere dei pellegrinaggi. Ci possiamo affidare alla ragione, alla semplice ragione umana, e ricercare Dio, seguire le sue tracce fino a volere toccare le pietre che sono appartenute alla casa nella quale la Santa Vergine è vissuta.
Il secondo personaggio che vorrei evocare è molto diverso. Questo Francese non era mai riuscito a stabilizzarsi in un luogo; diventato vagabondo, viveva di mendicità, andando di villaggio in villaggio, di paese in paese: in Francia, certamente, ma anche in Svizzera, in Germania, in Spagna, in Italia, fino ad arrivare a Roma. Nutriva una predilezione per Loreto dove si recò l’11 febbraio 1777. Si racconta che il prete al quale si era presentato per confessarsi rimase spaventato dalla vista di questo miserabile, coperto di parassiti: gli chiese di rimanere fuori della chiesa, ma quando lo ascoltò, si mise lui stesso in ginocchio davanti al mendicante perché aveva scoperto in lui un uomo che viveva costantemente alla presenza di Dio. Quando meditava l’incoronazione di spine, gli capitava di rimanere in estasi, in Dio, nella sua Trinità. Dopo aver percorso circa 30.000 (trenta mila) chilometri, S. Benedetto Labre ha finito la sua vita a Roma. Egli dormiva nelle rovine del Colosseo. Il mercoledì santo del 1783, si trascinò fino alla chiesa di Santa Maria ai Monti e crollò sulle scale del sagrato. Dei ragazzi diffusero immediatamente la notizia nella Città eterna: “Il Santo è morto!”. Infatti, i miracoli si moltiplicarono a partire dal giorno del suo funerale, la domenica di Pasqua. In un mondo che si sottometteva già alla ragione utilitaristica, Benedetto Labre ha voluto diventare il testimone della gratuità e dell’abbandono alla Providenza, alla carità dei suoi fratelli!
Il filosofo e il mendicante, due uomini così diversi e tuttavia riuniti in una stessa ricerca. Il primo non ricercava a Loreto il Dio astratto delle Idee pure, ma voleva toccare quelle pietre che testimoniavano, anche nel loro silenzio, della venuta di Dio fino nella carne umana. Il mendicante, lui, aveva abbandonato l’immagine di Dio alla quale si riferivano volentieri i grandi e i potenti di questo mondo: venendo a Loreto, anche lui intendeva toccare da vicino Colui che si era lasciato toccare dalla miseria umana. Tutti e due, il filosofo e il mendicante, avevano afferrato bene il messaggio singolare consegnato da questo luogo: colui che viene nella vecchia casa dove si è svolto il primo atto dell’Incarnazione, voglio parlare dell’annuncio fatto dall’Arcangelo Gabriele alla giovane Maria, deve persuadérsi che è lui stesso chiamato a diventare a sua volta una pietra viva di una casa nuova, quella che il Signore costruisce per coloro che mettono in lui la loro speranza, la Chiesa. Da una casa all’altra, da un mistero all’altro, dalla generazione del Verbo alla vita eterna offerta a tutti, dall’Incarnazione alla missione, da Nazareth ieri alla Chiesa di oggi e di domani. Ecco in poche parole il senso di Loreto e della nostra presenza al pellegrinaggio di questa notte.
“Casa mia”, espressione magica! Se ci pensiamo bene, ciascuno di noi non si ricerca forse uno “spazio suo”, un luogo modellato secondo i suoi gusti e i suoi mezzi, dove mettersi al riparo e riprendere le forze? Penso a quel colpo di genio delle religiose che, dovendo accompagnare gli anziani fino al loro ultimo soffio di vita, hanno chiamato l’istituto “Casa mia”. Esse hanno capìto che se la vecchiaia ci obbliga a spogliarci di tutto, la rinuncia più sensibile, o più drammatica, rimane quella di dovere abbandonare ciascuno lo “spazio suo”. Maria e il bambino che portava dentro avrebbero potuto dare a Loreto questo bel titolo: “Casa mia”. Questa sera, cari amici, venendo a pregare davanti alla casa del passato, siamo invitati, in questa vigilia di Pentecoste, a riaffermare la bellezza di quello che il Signore continua a chiamare “Casa mia”, voglio dire la Chiesa.
La missione che ci aspetta non è altro che questa: fare in modo che la Chiesa diventi la casa universale, dove ciascuno si senta a casa sua. Evidentemente, quest’opera si realizzerà solo se vi consacriamo le nostre forze, la nostra dedizione, il nostro cuore e la nostra intelligenza. Tuttavia, questa festa di Pentecoste ci ricorda che senza lo Spirito Santo, non possiamo fare nulla. È Lui il vero architetto della casa da edificare, il vero progettista della nostra Chiesa, come ce lo spiegava San Paolo nella sua Lettera ai Romani ascoltata nella seconda lettura: «Colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio».
Questa sera abbiamo l’opportunità di celebrare giustamente la Messa dello Spirito Santo. Questa acqua viva di cui abbiamo bisogno per dissetare la sete di cui parlava Gesù nel Vangelo proclamato, è Lui. Questa forza di cui abbiamo bisogno per continuare il nostro cammino senza scoraggiarci sulla strada dove il Signore ci chiama, è ancora Lui. Questa saggezza che ci è tanto necessaria quando dobbiamo prendere delle decisioni che orientano la nostra vita, è sempre Lui. Questo architetto, infine, che costruisce la nostra casa comune, la Chiesa, dove ciascuno di noi deve potere trovare conforto e incoraggiamento, è Lui. Che nostra Signora di Loreto faccia dono a ciascuno di noi della disponibilità del cuore che è stata la sua, quando l’angelo le apparve in queste stesse pietre per confidarle il bel progetto di amore che Dio nutriva per gli uomini!  Amen.

domenica 5 giugno 2011

Ascensione di Gesù al cielo

 
Mt 28,16-20

A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 


+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Parola del Signore 


Commento a cura di padre Ermes Ronchi

Cristo, pienezza e futuro di ogni cosa

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» È i­nutile inseguire quel volto, impossibile toccare quel cor­po. È finito il tempo degli in­contri e dei nomi, quando egli diceva: «Pietro!», «Maria!», «Tommaso!» e sulle sue labbra i nomi parevano bruciare; fi­nito il tempo del pane e del pe­sce condivisi attorno allo stes­so fuoco sulla riva del lago.
L'ascensione è la festa della sua presenza altrimenti: della sua presenza in tutte le cose, in tutti gli uomini, in tutti i gior­ni. Gesù non è andato lontano: è andato avanti e nel profon­do. E chiama a pienezza gli uo­mini, il tempo e le cose. Dice Paolo: «Cristo è il perfet­to compimento di tutte le co­se». Cristo è la pienezza e il fu­turo di ogni cosa che esiste. Il mio cristianesimo è la certez­za forte e inebriante che in tut­te le cose Cristo è presente, forza di ascensione dell'intero creato, energia che alimenta la nostra esistenza e la storia u­mana.
Un aggettivo prorompe da Matteo e da Paolo: «tutto»: An­date in tutto il mondo, a tutte le genti annunciate tutto ciò che vi ho detto, ogni potere è mio, io sarò con voi tutti i gior­ni, tutto è sotto i suoi piedi. «Dal giorno dell'ascensione abbiamo Dio in agguato al­l'angolo di ogni strada» (F. Mauriac).
C'è un sapore di totalità, un sapore di infinito, una prete­sa di assoluto, un superamen­to dei limiti di luogo, di mate­ria, di tempo. Si apre la di­mensione del Cristo cosmico, non assenza ma più ardente presenza, sparpagliato per tutta l'umanità, seminato in tutte le cose, fino a che alla fi­ne dei giorni sarà «tutto in tut­ti» (Col 3, 11). Non solo in me, in te o perfino nel cuore di­stratto e in quello che si crede spento, ma Cristo è presente in tutte le cose: nel rigore del­la pietra, nel canto segreto delle costellazioni, nella forza di coesione degli atomi, per un nuovo cielo, per una nuo­va terra. Tutti i giorni e tutte le cose sono ora messaggeri di Dio; tutti i giorni e tutte le co­se sono angeli e Vangeli. «E il divino traspare dal fondo di o­gni essere» ( Theilard de Char­din).
«Voi sarete miei testimoni», te­stimoni che dicono: noi di­pendiamo da una fonte che non viene
meno; nella nostra vita è in gioco una forza più grande di noi e che non si e­saurisce mai. Il nostro compi­to è accogliere questo flusso di vita che ci è consegnato. Ac­cogliere e restituire – alle ve­ne del mondo, alle relazioni, al cuore limpido – tutto ciò che alimenta la vita e che ha la sua sorgente oltre noi.




domenica 29 maggio 2011

VI domenica di Pasqua


Vangelo
Gv 14,15-21
Pregherò il Padre e vi darà un altro Paràclito.
+ Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Parola del Signore

Commento

 Padre Ermes Ronchi

L'amore che ha cambiato la storia
 "Se mi amate". Con questo verbo, il più importante del nostro vocabolario, che circondiamo di tanto pudore e di tante attese, Gesù entra nei nostri sentimenti più intimi, li rivendica per sé, ed è la prima volta, e per la storia che vuole cambiare. Non si tratta di un ordine, non di un imperativo, ma piuttosto di una constatazione: chi ama osserverà, diverrà per lui naturale, quasi un automatismo del cuore, osservare il suo comandamento, il nuovo, l'unico: amatevi come io vi ho amato (Gc 13,34). L'amore cambia la vita, non è un vago sentimento misto di fascino e di timore che Gesù propone: se ami non potrai ferire, tradire, derubare, violare, deridere, restare indifferente. Ama e fa quello che vuoi (sant'Agostino). Se ami non potrai che osservare una legge interiore ben più esigente di qualsiasi legge esterna. Ma è facile o difficile amare Cristo? Per sette volte oggi, nei sette versetti del brano, Gesù parla di unione: una passione di unirsi corre dentro la storia di Dio e dell'uomo. Passione di unirsi per cui Dio è diventato, in principio, il respiro stesso di Adamo; per cui per millenni ha cercato un popolo, profeti di fuoco, re e mendicanti, e infine una ragazza di Nazaret per entrare in comunione con l'umanità, comunione assoluta. E qui Giovanni ricorre al verbo più importante della vita spirituale: essere-in. Non solo essere accanto, presso, vicino, ma essere-in. Dentro, immersi, uniti: lo Spirito sarà in voi... io sono nel Padre, voi siete in me e io in voi. Fino a che l'altro diventi tua dimora e tua casa. Tommaso d'Aquino diceva che l'amore è passione di unirsi alla persona amata. In Dio per primo c'è questa passione, lui per primo viene incontro, è lui che cerca casa, a noi compete il lasciarci amare, e questo è finalmente, gioiosamente facile e bello. Amare Cristo è facile come lasciarsi amare. Allora i comandamenti altro non sono che vie per l'unione, passione di fare ciò che Dio fa', di partecipazione alla stessa energia di vita, di respirare il suo respiro non più un ordine esterno, ma un modo per assomigliare a Dio, espansione di una storia di comunione, il traboccare verso l'esterno di una sintonia interna. Questo è il comandamento: passione di unirsi a Dio e quindi di agire con lui e come lui nella storia, essere le sue mani, un frammento del suo cuore. Nessuna etica vive senza una mistica. Non vi lascerò orfani, perché io vivo e voi vivrete. Orfano è parola ed esperienza legata alla morte. Ma chi ama vive, forte come la morte è l'amore, le grandi acque non possono spegnerlo, né i fiumi travolgerlo. Vivrete perché io vivo: la passione di unirsi è diventata passione di far vivere.