martedì 31 marzo 2009

Le voci degli africani

Le voci degli africani in San Pietro: "pietismo ipocrita in Occidente. Ci danno stampelle rovinate, ma l'Africa deve correre!"I giovani africani presenti in Piazza San Pietro, oltre a esprimere il proprio grazie al Papa per il suo sostegno al continente, hanno voluto anche manifestare “un netto rifiuto della strumentalizzazione delle parole di Benedetto XVI” richiamando “le autentiche priorità per l’Africa: cibo, acqua, energia, cure mediche, reddito stabile per le famiglie” nonché un equo sistema commerciale “che faciliti anche l’esportazione di manufatti e prodotti africani - non solo quella delle materie prime” e la valorizzazione “sul posto” delle risorse del continente. Ma ascoltiamo alcune testimonianze dei giovani africani raccolte da Virginia Volpe:R. – Manifestiamo prima di tutto per ringraziare il Papa per la sua diagnosi sull’Africa, e poi vogliamo dire al Papa che noi africani abbiamo capito il suo messaggio. Se anche la comunità internazionale è stata distratta da queste false polemiche diffamatorie, noi abbiamo capito il suo messaggio: è quello che ci interessa! E poi vogliamo dire a questa comunità internazionale che prima di tutto l’Africa non è un continente di preservativi! Hanno fatto credere che l’Africa è handicappata … Comunque, per camminare servono le stampelle e loro hanno dato all’Africa stampelle rovinate. Invece, l’Africa non è handicappata: l’Africa deve correre!”D. – Qual è il messaggio che vuol passare oggi, con la vostra presenza qui? R. – Il Santo Padre ha fatto un viaggio molto bello in Africa, e aveva un messaggio molto importante per i nostri popoli. Questo messaggio è stato trasmesso, ma purtroppo un po’ deformato dai mass media, soprattutto qui in Occidente. Noi vogliamo difendere, insieme al Santo Padre, la vita: in Africa si difende la vita. R. – Se parlate dell’Aids, si deve parlare delle strutture sanitarie prima dei preservativi! Allora, questo è il messaggio che vogliamo dare: no a questo tipo di speculazione sull’Africa!R. – Il nostro messaggio di oggi è prima di tutto, di ringraziamento al Santo Padre per quel tesoro che ha lasciato all’Africa, perché è stato un insegnamento meraviglioso. E poi a chi ha criticato e continua a criticare il Santo Padre sul problema della lotta all’Aids in Africa vogliamo dire a queste persone che è un pietismo ipocrita!D. – L’Africa come ha vissuto le polemiche che ci sono state in Occidente? R. – Per noi è stata un’offesa: pensavano di avere offeso il Papa, invece hanno offeso gli africani!R. – Il piccolo popolo europeo … se è capace di alzare la voce contro il Papa per quello che ha detto sulla situazione in Africa, deve essere anche capace di aiutare gli africani in modo corretto. Per esempio, ci sono delle guerre, in Africa, e queste guerre sono sostenute dai governanti europei. Perché gli europei che ci amano non possono dire ai loro governanti: lasciateli tranquilli, non finanziate le guerre in Africa?
Radio Vaticana

lunedì 30 marzo 2009

Le scelte che si fanno

Io per Pasqua scelgo Gesù.

Le scelte che si fanno, spesso influenzano tutta la vita, come la moglie, la casa, la suocera…
Gli uomini in tutte le loro scelte per le cose materiali, cercano sempre di preferire le cose più belle: la Miss più bella, la macchina più lussuosa, la casa più grande…
Mentre stranamente per le cose spirituali non scelgono affatto, o lasciano che altri scelgono per loro, come un lavaggio di cervello. Raramente si sceglie la parte migliore: Gesù.

Nei versi biblici di Giovanni da 18:37 a 19:16, troviamo la prima scelta che fecero gli uomini: Barabba invece di Gesù.
"Non si è liberi di scegliere!?" sentiamo spesso esclamare dalla gente. Il problema è che le conseguenze delle scelte in campo spirituale non si vedono immediatamente.
Al limite rispondono che all'inferno si starà caldi, non si soffrirà il freddo, si giocherà a carte e vi saranno le donne più belle.
In questo testo troviamo Pilato che, nelle vesti di giudice, per ben tre volte dichiara l'innocenza di Gesù: "Io non trovo colpa in Lui". Barabba invece era stato dichiarato colpevole, era un ladro e un omicida. Ma il popolo lo scelse lo stesso.
Di Gesù sta scritto che andava attorno, attorno facendo del bene, guariva gli ammalati, sfamava i poveri, annunziava la Buona Novella. Barabba invece, rubava e uccideva, eppure fu scelto al posto del Santo.
Perché questa assurdità? Perché la luce splende nelle tenebre (Giovanni 1:5). Alla luce della santità di Dio gli uomini sono riprovati, in compagnia di Barabba invece stanno bene. Barabba vuol dire: figlio di un padre.
Quindi gli uomini scelsero il figlio di un padre umano al posto del Figlio di Dio.

Il giudice Pilato dopo aver costatato che Gesù era senza colpa, in contraddizione con se stesso e con la giustizia che rappresenta, sceglie di fare flagellare Gesù. Dopo la flagellazione, la corona di spine, lo scherno, gli schiaffi e gli sputi, Pilato esclama: "Ecco l'uomo!", facendolo condurre fuori. Forse voleva dire: "É questo l’uomo che dovete scegliere, non Barabba!"
Lì vi erano migliaia di uomini che gridavano: "crocifiggilo, crocifiggilo!", e anche i soldati romani, uomini forti e armati di tutto punto e Pilato stesso, la più alta autorità.
Gesù veniva curvo, sofferente, con la corona di spine, non sembrava più un uomo. Eppure lì in mezzo, Pilato sotto l'ispirazione divina, indicò un solo uomo:Gesù. Se Gesù era l'uomo, gli altri cosa erano?
Il modello di uomo secondo la cultura umana sono gli uomini di grido, di successo, quelli che non perdono mai. Il modello di uomo secondo Dio invece è Gesù. Il Suo carattere rispecchia pienamente il frutto dello Spirito Santo, "amore, gioia, pace..." (Galati 5:22). I frutti della carne, "fornicazioni, idolatria, stregonerie.."(Galati 5:19-21) degradano l'uomo. La sua dignità e lo scopo per cui è stato creato si perdono.
Facendo flagellare Gesù Pilato sperava che alla vista di un uomo sofferente come infatti appariva, avrebbe impietosito il popolo e Lo avrebbe scelto. Ma il popolo senza pietà Lo scelse per la croce.

Qual'era la colpa di Gesù? Dichiarava di essere il Figlio di Dio. In che consiste questa colpa? Se io dico: "sono uno dei figli di Dio", tutto rimane nella normalità. Ma dire, sono il Figlio di Dio, equivale a dire: "Io sono Dio" (Giovanni 5:18; 10:33). Ed è chiaro che Pilato dopo questa affermazione avesse più paura, ed era ancora più preoccupato che Gesù non gli rivolgeva più la parola.
Gesù aveva parlato e non era stato ascoltato, ma poi arriva il momento in cui non parla più. Quando Gesù non parla più, la tragedia umana si compie. La tradizione riferisce che Pilato, esiliato in Gallia, muore suicida.
E qui arriviamo alla seconda scelta degli uomini: dovevano scegliere tra un Re divino e uno umano. Il re umano e pagano, Cesare, faceva pagare tasse salate al popolo, lo teneva schiavo, rubava le sue cose più belle, alla fine distrusse il suo tempio e lo disperse per il mondo. Nonostante tutto scelsero Cesare al posto del Re del cielo che portava amore, pace, liberazione e vita eterna.

In questo pezzo di storia del Salvatore troviamo una terza scelta assurda degli uomini.
Quale è? Negli evangeli ci viene descritto che gli scribi e i farisei con le loro menzogne, convinsero e incitarono la folla a scegliere Barabba. Hanno scelto la menzogna invece della verità.
Allora Pilato volendo soddisfare la folla liberò Barabba e lavandosi le mani abbandonò Gesù alla loro volontà perché fosse crocifisso, e il popolo disse: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli".
Ancora oggi dopo 2000 anni costatiamo la cruda realtà di questa triste affermazione del popolo ebreo. Ancora ieri su tutti i Tg del mondo si è visto per terra tanto sangue ebreo.
Alla fine, considerando l'insieme, possiamo dire che il dolore più grande per Gesù, non fu la flagellazione, i chiodi… ma il rifiuto di Lui.
Tutto quanto, però, sappiamo che non gli è sfuggito di mano, poiché Egli è sovrano. Egli volontariamente si diede per il nostro riscatto, e c’è ancora posto al calvario per trovare salvezza, gioia e vita eterna. Scegli Gesù, la vita e vivi.

nikscorsone.maranath@libero.it


sabato 28 marzo 2009

Per riflettere

Luigi Capuozzo (Italy)

L’orecchio dell’uomo giudica i discorsi come il palato assapora le vivande!

Spesso, tra noi per gelosia o per dispetto, ci mettiamo a parlar male di tale o tal fratello, anche di un servitore del Signore. Ci si compiace nella maldicenza, nel riferire un male forse reale, ma con lo scopo di disprezzare agli occhi del proprio interlocutore colui che l'ha commesso. Si va anche fino alla calunnia, raccontando ciò che è falso, o fortemente esagerando. Il male prodotto è irreparabile. Dopo esserci umiliati davanti al Signore, potremo ben scusarci col nostro interlocutore (non con colui sul conto del quale abbiamo fatto della maldicenza o della calunnia, cosa che lo affliggerebbe ancor più) e pregarlo di dimenticare, ma nel frattempo il male si sarà già sparso e avrà fatto la sua opera. Tre cose, dice un proverbio arabo, non possono essere trattenute: la freccia che vola, la parola detta, il tempo passato. Giacomo avverte: « Se uno... non tiene a freno la sua lingua... la religione di quel tale è vana! » (Giac. 1:26). DIO infatti non ha bisogno di osservare a lungo un uomo prima di farlo comparire davanti a sé in giudizio. Levitico 19,16 « Non andrai qua e là facendo il diffamatore fra il tuo popolo ». L'apostolo Pietro ne sottolinea tutta la gravità: « Gettando dunque lungi da voi... ogni sorta di maldicenze, ... appetite il puro latte spirituale... se pure avete gustato che il Signore è buono » (1 Pietro 2, 1-3). Poiché Dio tiene gli occhi sulle vie dell'uomo, e vede tutti i suoi passi. Non vi sono tenebre né ombra di morte, dove possano nascondersi i malfattori. Poiché Dio rende all'uomo secondo le sue opere e fa trovare a ognuno il salario della sua condotta. Certamente Dio non compie il male e l'Onnipotente non sovverte la giustizia. È fatta una promessa al Salmo 15 a colui che non maledice con la sua lingua: egli « dimorerà nella tenda dell'Eterno »: comunione benedetta col Signore di colui che ha vegliato sulle sue labbra. Davide supplicava: « Siano grate nel tuo cospetto le parole della mia bocca e la meditazione del mio cuore » (Salmo 19,14). Le risoluzioni e i buoni propositi esteriori non sono un soccorso sufficiente: la lingua non può essere domata. È l'essere interiore che deve essere cambiato, rinnovato, trasformato. Bisogna giudicare i pensieri malvagi che ci spingono a sparlare del nostro fratello, o anche a calunniarlo, quando sono ancora in noi. Oggetto della maldicenza da parte del fratello e della sorella, Mosè tace. Ma « l'Eterno l'udì », e li convoca, tutti e tre, alla tenda di convegno; poi fa venire davanti a sé solo Aaronne e Maria. Egli prende la difesa del suo servitore, fedele in tutta la sua casa, col quale egli parla a tu per tu, e che vede la sembianza dell'Eterno: « Perché non avete temuto di parlar contro il mio servo, contro Mosè? E l'ira dell'Eterno s'accese contro loro... ed ecco che Maria era lebbrosa; Aronne guardò Maria, ed ecco era lebbrosa ». La profetessa, che aveva cantato le lodi dell'Eterno, doveva essere, d'ora in poi, esclusa dal campo, e continuare così la sua vita, fino a quando la morte la libererà dalla sua orrenda malattia. Quale tragedia! Dio non prende queste cose alla leggera. La coscienza di Aronne e di Maria parla. Essi si pentono. Riconoscono il loro peccato, per il quale hanno agito stoltamente. Aronne, benché sacerdote, non è in grado di pregare per sua sorella. Alla sua domanda pressante, Mosè, che per la prima volta nel nostro testo apre la bocca, senza alcun risentimento grida all'Eterno: « Guariscila, o Dio, te ne prego ». Ma la disciplina deve seguire il suo corso. Maria sarà guarita, a condizione però che porti « la vergogna per sette giorni », lasciata fuori del campo. Tutto il popolo ne soffre con lei e non parte finché Maria non è riammessa.« Perché dunque non avete temuto di parlare contro il mio servo? ». Queste parole non risuonano forse anche alla nostra coscienza? Senza dubbio, ogni servitore del Signore ha i suoi mancamenti e le sue deficienze (Giac. 3:2); non è questa una ragione per metterle in evidenza e servirsene contro di loro. Al contrario, l'amore copre gli errori altrui; ne parla col Signore perché Egli corregga e guarisca; oppure direttamente con l'interessato se, in casi particolari, egli è condotto a farlo. Sparlare di servitori di Dio, di nostri fratelli, chiunque essi siano, non può che attirare la disciplina del Signore su noi stessi, ostacolando la comunione con lui, rendendo vano il nostro servizio, producendo aridità nell'anima, e dei frutti spesso molto amari. Non dovremmo prendere molto più a cuore questo peccato di maldicenza che noi commettiamo con così tanta leggerezza? Non accogliamo più i commenti sfavorevoli che qualcuno ci fa, e rispondiamo come ha fatto un fratello ad uno che ne criticava un altro: "Vado a parlargliene"; e l'interlocutore subito lo pregò di non farlo! Nel giudizio di noi stessi, cercare le cause che ci hanno condotto a fare della maldicenza, giudicarle veramente davanti a Dio, e accettare, se occorre, la vergogna e la correzione. A Gesù la Gloria e l'Onore.

Il vangelo della domenica


Commento offerto da don Roberto Rossi


Il chicco di grano che porta molto frutto


V Domenica di Quaresima (Anno B) (06/04/2003)Vangelo: Gv 12,20-33


Nel cammino quaresimale vogliamo far entrare in profondità dentro di noi queste espressioni schiette e decise di Gesù, nella misura in cui si pongono all'opposto della concezione comune e immediata. "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire mi segua..." Il vangelo si riferisce agli ultimi tempi della vita di Gesù, quando si è presentato come Messia e non è stato ascoltato. Umanamente la sua vita, è un fallimento. IL Vangelo di oggi è la spiegazione profonda di questo fallimento che diventa vittoria, diventa piena realizzazione. "Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto". Gli Ebrei sognavano un Messia guerriero, vittorioso, che avrebbe sconfitto i Romani. Invece viene un Messia umile, non violento, che parla di conversione del cuore e accetta di essere flagellato e condannato al supplizio della Croce. La morte di Gesù è il seme della vita nuova, della vita eterna. Siamo stati tutti salvati dalla sua Croce, accettata come volontà del Padre! Noi crediamo in Cristo crocifisso "scandalo per i Giudei e follia per i pagani", come dice San Paolo. Attraverso la Croce, Gesù ha redento gli uomini: "quando sarò innalzato da terra attirerò a me tutti gli uomini", si legge nel vangelo di oggi. La nostra fede è nella Croce di Cristo: non la religione della spada, non nella gloria, non del successo, ma della Croce. Solo la via della Croce ci conduce al Padre che sta nei cieli. L'ha percorsa Gesù per primo, anche noi siamo chiamati a percorrerla. Cos'è la Croce per noi? E' il senso autentico del perché viviamo. Che senso ha infatti la vita se non fare la volontà di Dio? Questo costa sacrificio, rinunzia, lotta contro le nostre passioni. Ma sappiamo che solo seguendo questa via noi realizziamo noi stessi. Dice Gesù: "Chi vuole salvare la propria vita la perderà, chi è disposto a perdere la propria vita in questo mondo la salverà per la vita eterna". E' difficile oggi fare un discorso coma questo. La mentalità del benessere come un diritto dell'uomo, del consumismo, della vita concepita come divertimento, è radicalmente contraria alla mentalità evangelica. Giovani e adulti siamo sempre meno educati al sacrificio perché troviamo tutto pronto, tutto ci sembra dovuto. Il mondo moderno tende a dispensare l'uomo da ogni fatica, da ogni sacrificio, da ogni rinunzia e sofferenza. Se il sacrificio è la condizione irrinunziabile per conseguire qualsiasi risultato umano (nel matrimonio, nel lavoro, nello studio), tanto più esso vale per seguire la via del Vangelo. Gesù l'ha detto: "Se qualcuno vuol venire dietro a me prenda la sua croce e mi segua". Come reagisco e come mi comporto nei momenti difficili della mia vita, nelle sofferenze, nelle croci, nella solitudine, nel buio della fede, nei fallimenti? Riesco a farmi forza, a unirmi a Cristo, a dare valore a tutto ciò che vivo, a coltivare la speranza della salvezza del Signore, a santificare tutto questo e a portare, con il Signore, molto frutto? Resto sempre preoccupato di me, dei miei problemi, delle mie cose; resto chiuso nel mio egoismo oppure ho imparato a vivere la vita per gli altri, come dono, come amore, come servizio? In un certo senso questo è "perderla", ma è l'unico modo per guadagnarla, per viverla, per darle pieno valore umano e cristiano sulla terra e pienezza nell'eternità di Dio! Così ci insegna Gesù, così hanno vissuto e testimoniato i santi, ma certamente l'abbiamo provato molte volte anche noi. Quando ci guardiamo attorno e vediamo i frutti cattivi dell'egoismo, della sete di potere, di prestigio, di superiorità sugli altri, comprendiamo sempre di più la solidità e la bellezza di queste verità che Gesù ha insegnato e soprattutto che ha vissuto, lui per primo, in pienezza. Gli stessi avvenimenti difficili del mondo oggi possiamo leggerli alla luce di queste parole di Gesù. L'immagine del chicco getta una luce grande prima di tutto sulla vicenda personale di Gesù e poi anche su quella di tutti i suoi discepoli. Il chicco di grano è innanzitutto Lui stesso, Gesù. Come il chicco di grano Egli è caduto in terra, nella sua passione e morte, ma è rispuntato e ha portato, con la sua risurrezione, i frutti abbondanti della salvezza. Ma la storia del piccolo chicco di grano aiuta anche noi a capire noi stessi e il senso della nostra esistenza, a lottare contro il male e l'egoismo, a spenderci per vivere la vita come amore, a confidare nella bontà di Dio che rende molto fruttuosa la sofferenza, proprio nel momento in cui abbiamo l'impressione di non poter far più nulla, perché malati o impossibilitati. E' significativa a questo proposito la testimonianza di Marcello Candia, l'industriale milanese che vendette le sue fabbriche e andò con i missionari in Amazzonia a spendere tutte le sue sostanze e la sua stessa vita per i poveri e con i poveri. E' stato un uomo che ha dato un grandissimo esempio di lavoro, di impegno, di donazione. Eppure al termine della vita, stroncato da tumore a 67 anni, sul letto di morte così si confidava... "Nella mia vita ho lavorato tanto in senso organizzativo, ho pregato e, perché si pregasse di più, ho costruito il Carmelo a Macapà. Ma adesso il Signore mi chiede la cosa più alta, la sofferenza. Sì, l'atto più alto dell'amore che Gesù mi ha manifestato è l'avermi posto nella sofferenza, dandomi anche la possibilità di abbandonami a lui, con fiducia, con serenità, con amore. Gesù mi fa vivere l'esperienza più bella della mia vita, facendomi capire che non è sufficiente lavorare per il Regno di Dio; non è sufficiente pregare; più importante è accettare con umiltà e disponibilità il dolore come e quanto Dio lo permette. Questa è una grande esperienza per me, perché solo nella sofferenza possiamo realizzare la comprensione dell'amore di Dio".

venerdì 27 marzo 2009

Testimonianza della settimana

Cari amici lettori, da questo venerdì inizia una serie di pubblicazioni che riguardano testimonianze di vita di alcuni fratelli che vogliono comunicarci la gioia di avere incontrato Gesù Cristo.


Dalla religione. a Cristo. Mi chiamo Annibale, sono nato in provincia di Reggio Emilia, ho 45 anni e voglio esprimere con parole semplici come ho trovato la pace, la vita eterna e come sono stato riconciliato con il Dio vivente, il Dio del cielo e della terra. Ho sempre creduto nell'esistenza di Dio, provenendo dalla religione cattolica. Essa non mi ha mai insegnato come conoscere in modo personale Dio e come avere una risposta sicura sulla vita eterna e il Paradiso. Fino a vent'anni sono andato quasi tutti i giorni a messa; entrando in chiesa mi inginocchiavo davanti alle statue della Madonna e ai crocifissi. Credevo di vedere in quelle statue il Signore Gesù e pensavo che queste mi parlassero; solo ora capisco di essere stato ingannato dai miei sentimenti. In esse, però, non trovavo la pace e la sicurezza che stavo cercando. Un giorno, uscendo dalla chiesa, mi prese una tale angoscia che mi misi a piangere a dirotto. Fu in quel momento che gridai a Dio con cuore sincero, dicendo: "Signore, fammi vedere la via che devo seguire e io camminerò per essa". Dopo queste cose incontrai un amico che mi incoraggiò a leggere il vangelo di Giovanni, nel quale ho trovato le risposte alle mie domande. Ho capito che solo il Signore Gesù Cristo poteva salvarmi dalla morte e dall'inferno, conseguenze del peccato. Confessai a lui i miei peccati e gli chiesi di entrare nella mia vita come mio personale Signore e Salvatore. Questa infatti è la vita eterna, cioè credere che Gesù Cristo è l'unigenito figlio di Dio e che solo Lui toglie il peccato del mondo. Nell'amore di Gesù si può trovare la pace, la gioia e la forza per vivere. Ora frequento una chiesa con persone che hanno fatto la mia stessa esperienza, dando interamente la loro vita a Gesù. Amico, chiunque tu sia, giovane o anziano, uomo o donna, italiano o straniero, non aspettare domani, scegli ADESSO di seguire il Signore Gesù Cristo e sii certo che Lui ti AMA.
Annibale

Essere cristiani



"Non si nasce cristiani, lo si diventa'' (Tertulliano).


Questo "divenire'' è lo spazio in cui si inserisce l'ascesi cristiana. Ascesi è oggi parola sospetta, se non del tutto assurda e incomprensibile per molti uomini e, ciò che più è significativo, anche per un gran numero di cristiani. In realtà "ascesi'', termine che deriva dal greco askeîn, "esercitare'', "praticare'', indica anzitutto l'applicazione metodica, l'esercizio ripetuto, lo sforzo per acquisire un'abilità e una competenza specifica: l'atleta, l'artista, il soldato devono "allenarsi'', provare e riprovare movimenti e gesti per poter pervenire a prestazioni elevate. L'ascesi è dunque anzitutto una necessità umana: la stessa crescita dell'uomo, la sua umanizzazione, esige un corrispondere interiore alla crescita anagrafica. Esige un dire dei "no'' per poter dire dei "sì'': "Quando ero bambino, parlavo e pensavo da bambino ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato'' scrive san Paolo (1 Lettera ai Corinzi 13,11). La vita cristiana poi, che è rinascita a una vita nuova, a una vita "in Cristo'', che è adattamento della propria vita alla vita di Dio, richiede l'assunzione di capacità "non naturali'' come la preghiera e l'amore del nemico: e questo non è possibile senza un'applicazione costante, un esercizio, uno sforzo incessante.
Riflessione dei fratelli della comunità di Bose

Amare la vita, fino alla fine

L’uomo è per la vita.
Tutto in noi spinge verso la vita, condizione indispensabile per amare, sperare e godere della libertà. Il dramma della sofferenza e la paura della morte non possono oscurare questa evidenza. Chi sta male, infatti, chiede soprattutto di non essere lasciato solo, di essere curato e accudito con benevolenza, di essere amato fino alla fine. Anche in situazioni drammatiche, chiedere la morte è sempre l’espressione di un bisogno estremo d’amore; solo uno sguardo parziale può interpretare il disagio dei malati e dei disabili come un rifiuto della vita. Persino nelle condizioni più gravi ciò che la persona trasmette in termini affettivi, simbolici, spirituali ha una straordinaria importanza e tocca le corde più profonde del cuore umano. Certo, la possibilità di levar la mano contro di sé, di rinunciare intenzionalmente a vivere, c’è sempre stata nella storia dell’umanità; ma in nessun popolo è esistita la pretesa che questa tragica possibilità fosse elevata al rango di diritto, di un “diritto di morire”, che il singolo potesse rivendicare come proprio nei confronti della società. La persona umana, del resto, si sviluppa in una fitta rete di relazioni personali che contribuiscono a costruire la sua identità unica e la sua irripetibile biografia. Troncare tale rete è un’ingiustizia verso tutti e un danno per tutti. Teorizzare la morte come “diritto di libertà” finisce inevitabilmente per ferire la libertà degli altri e ancor più il senso della comunità umana. Per chi crede, poi, la vita è un dono di Dio che precede ogni altro suo dono e supera l’esistenza umana; come tale non è disponibile, e va custodito fino alla fine. Esistono malattie inguaribili, ma non esistono malattie incurabili: la condivisione della fragilità restituisce a chi soffre la fiducia e il coraggio a chi si prende cura dei sofferenti. La vera libertà per tutti, credenti e non credenti, è quella di scegliere a favore della vita, perché solo così è possibile costruire il vero bene delle persone e della società. Per questo sentiamo di dover dire con chiarezza tre grandi SÌ: Sì alla vita Sì alla medicina palliativa Sì ad accrescere e umanizzare l’assistenza ai malati e agli anziani e tre grandi NO No all’eutanasia No all’accanimento terapeutico No all’abbandono di chi è più fragile Come cittadini sappiamo che la nostra Costituzione difende i diritti umani non già come principi astratti, ma come il presupposto concreto della nostra vita che è nello stesso tempo fisica e psichica, privata e pubblica. Mai come oggi la civiltà si misura dalla cura che, senza differenze tra persone, viene riservata a quanti sono anziani, malati o non autosufficienti. Occorre in ogni modo evitare di aggiungere pena a pena, ma anche insicurezza ad insicurezza. Chiediamo che le persone più deboli siano efficacemente aiutate a vivere e non a morire, a vivere con dignità, non a morire per falsa pietà. Solo amando la vita di ciascuno fino alla fine c’è speranza di futuro per tutti.
Maria Luisa Di Pietro
Bruno Dallapiccola
Giovanni Giacobbe
Franco Pasquali

mercoledì 25 marzo 2009

Solennità dell'Annunciazione


VANGELO (Lc 1,26-38)
Ecco, concepirai e darai alla luce un figlio.
+ Dal Vangelo secondo Luca


In quel tempo, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei,
disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te".
A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.
L'angelo le disse: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine".
Allora Maria disse all'angelo: "Come è possibile? Non conosco uomo". Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio".
Allora Maria disse: "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto". E l'angelo partì da lei.
Parola del Signore.


OMELIA
Maria di Nazaret aveva scelto una vita di dono totale a Dio, come vergine.
Ma Dio decise altrimenti. Ciò che colpisce, nell'Annunciazione, è che una "religione pura" esige un dialogo vivente e costante fra Dio e ogni uomo.
Qui Dio ha pronunciato la sua ultima Parola a Maria, perché si compissero le parole che, nella storia di Israele, erano state dette ad Abramo, a Mosé e ai profeti. Essi avevano ascoltato e obbedito; lasciarono entrare nella loro vita la Parola di Dio, la fecero parlare nelle loro azioni e la resero feconda nel loro destino.
I profeti sostituirono alle loro proprie idee la Parola di Dio; anche Maria lasciò che la Parola di Dio si sostituisse a quelle che erano le sue convinzioni religiose. Di fronte alla profondità e all'estensione di questa nuova Parola, Maria "rimase turbata". L'avvicinarsi del Dio infinito deve sempre turbare profondamente la creatura, anche se, come Maria, è "piena di grazia".
Assolutamente straordinario è poi che questo Dio non solo si avvicina a Maria, ma le offre il proprio Figlio eterno perché divenga il suo Figlio.
Come è possibile che il "Figlio dell'Altissimo" diventi suo Figlio? "Lo Spirito Santo scenderà su di te". Come scese sul caos, in occasione della creazione, lo Spirito Santo scenderà su Maria e il risultato sarà una nuova creazione. L'albero appassito della storia fiorirà di nuovo. "Maria
disse: Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto". Nell'Annunciazione si ha il tipo di dialogo che il Padre del nostro Signore Gesù Cristo vorrebbe avere con ciascuno di noi.
L'esperienza di Maria a Nazaret sottolinea questa verità per tutto il popolo di Dio. Il suo "sì" in risposta all'offerta divina e il cambiamento drammatico di vita che ne sarebbe seguito, mostrano che la venuta di Dio in mezzo a noi esige un cambiamento radicale.
Ma, cosa più importante, l'Annunciazione a Maria ci pone di fronte ad una grande verità: ognuno di noi ha avuto un'"annunciazione" personale. Sto esagerando? No di certo. Se esaminate la vostra vita passata, troverete un'esperienza che è stata decisiva; forse non ebbe allora conseguenze immediate, o almeno non vi sembrò, ma, ripensandoci adesso, vi accorgete che è stata fondamentale, sia essa la scuola che avete frequentato, un libro che avete letto, un discorso che avete ascoltato, una frase delle Scritture che vi ha colpito, gli amici a cui vi siete sentiti uniti o un ritiro che avete fatto. Era il Dio di Maria di Nazaret che si annunciava a voi. Voi avete dunque avuto una "vostra" annunciazione. E se non avete risposto "sì", o se avete pronunciato soltanto un "sì" timido? Basta riconoscere l'annunciazione ora e cercare di recuperare il tempo perduto vivendo per Dio e per gli altri.
"Eccomi sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto".

Tratta da "Conoscere la Parola, vivere la Parola, amare la Parola, annunciare la Parola"


MEDITAZIONE
Il "Fiat" di Maria è l'espressione di un desiderio, e non di un'ultima esitazione. Dicendo queste parole, Maria esprime la vivacità del suo desiderio piuttosto che domandarne la realizzazione, come qualcuno che ha ancora dei dubbi. Niente impedisce, tuttavia, di vedere in questo "Fiat"
una preghiera.
Poiché nessuno prega senza essere animato dalla fede e dalla speranza. Dio vuole che noi gli domandiamo anche le cose che egli ci promette. Egli inizia col prometterci delle cose che ha deciso di donarci. La Vergine l'ha capito, poiché nel momento della promessa gratuita ella aggiunge il merito della sua preghiera: "Avvenga di me quello che hai detto!". La parola faccia di me ciò che ha detto la tua parola. Si compia in me, te ne supplico, non la parola proferita, che è transitoria, ma questa parola che ho concepito perché rimanga viva. Non sia udibile solamente dalle mie orecchie, ma anche visibile ai miei occhi, palpabile dalle mie mani, e io possa portarla nelle mie braccia. Sia non la parola scritta e muta, la parola senza vita, ma incisa ad opera dello Spirito Santo.
Avvenga di me ciò che non è mai avvenuto né avverrà a nessuno. La tua parola sia messa nel mio ventre, secondo la tua promessa. Chiamo la parola in me, infusa nel silenzio, fatta carne in una persona, unita nel corpo alla mia carne. E avvenga di me quello che hai detto!
SAN BERNARDO

martedì 24 marzo 2009

Vivere e morire secondo il Vangelo


ENZO BIANCHI
( "La Stampa", 15 Febbraio 2009 )

"C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare", ammoniva Qohelet, così come "c’è un tempo per nascere e un tempo per morire; un tempo per uccidere e un tempo per guarire...". Veniamo da settimane in cui questa antica sapienza umana – prima ancora che biblica – è parsa dimenticata: anche tra i pochi che parlavano per invocare il silenzio v’era chi sembrava mosso più che altro dal desiderio di far tacere quanti la pensavano diversamente da lui. Soprattutto si è avuto l’impressione che l’insieme della nostra società non avesse certezze condivise sulla scansione dei diversi "tempi" e sul significato dei diversi verbi usati da Qohelet a indicare lo scorrere dell’esistenza umana: quando è "tempo" per questo o per quell’altro? E cosa significa parlare, morire, uccidere, guarire? Uno smarrimento di senso condiviso che ha coinvolto anche parole forti attinenti ai principi fondamentali dell’etica: dignità, libertà, volontà, rispetto, carità, vita...
Le settimane appena trascorse saranno sicuramente ricordate come "giorni cattivi" da molti cristiani, ma anche da molti uomini e donne non cristiani che tentano ogni giorno di rinnovare la loro ricerca di senso, soprattutto attraverso la faticosa lotta dell’amare in verità e dal lasciarsi amare da quanti sono loro accanto. "Giorni cattivi" è un’espressione biblica che indica tempi privi di una parola da parte di Dio, da parte dei suoi "profeti" e quindi anche privi di parole umane sincere, vere, autentiche: tempi in cui si fa silenzio per non aumentare il rumore, la "rissa", l’aggressione nella comunità umana e per evitare che parole sensate vengano "triturate" insieme alle insensate e non si riesca poi più a recuperarle per giorni migliori. Per questo molti hanno preferito il silenzio. Da parte mia confesso che, anche se il "direttore" di questo "giornale" mi ha invitato più volte a scrivere, ho preferito fare silenzio, anzi, soffrire in silenzio, aspettando l’ora in cui fosse forse possibile – ma non è certo – dire una parola udibile.
Attorno all’agonia lunga diciassette anni di una donna, attorno al dramma di una famiglia nella sofferenza, si è consumato uno scontro incivile, una "gazzarra" indegna dello stile cristiano: giorno dopo giorno, nel silenzio abitato dalla mia fede in Dio e dalla mia fedeltà alla terra e all’umanità di cui sono parte, constatavo una violenza verbale, e a volte addirittura fisica, che strideva con la mia fede cristiana. Non potevo ascoltare quelle grida – "assassini", "boia", "lasciatela a noi"... – senza pensare a Gesù di Nazaret che quando gli hanno portato una donna gridando "adultera" ha fatto silenzio a lungo, per poterle dire a un certo punto: "Donna (non "adultera"), neppure io ti condanno: va’ e non peccare più"; non riuscivo ad ascoltare quelle urla minacciose senza pensare a Gesù che in croce non urla "ladro, assassino!" al brigante non pentito, ma in silenzio gli sta accanto, condividendone la condizione di colpevole e il "supplizio". Che senso ha per un cristiano recitare "rosari" e insultare? O pregare ostentatamente in piazza con uno stile da manifestazione politica o sindacale?
Ma accanto a queste contraddizioni laceranti, come non soffrire per la "strumentalizzazione" politica dell’agonia di questa donna? Una politica che arriva in ritardo nello svolgere il ruolo che le è proprio – offrire un quadro legislativo adeguato e condiviso per tematiche così sensibili – e che brutalmente invade lo spazio più intimo e personale al solo fine del potere; una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca, con il compiacimento anche di cattolici, di trasformare il cristianesimo in religione civile. L’abbiamo detto e scritto più volte: se mai la fede cristiana venisse declinata come religione civile, non solo perderebbe la sua capacità "profetica", ma sarebbe ridotta a "cappellania" del potente di turno, diverrebbe sale senza più sapore secondo le parole di Gesù, incapace di stare nel mondo facendo memoria del suo Signore.
È avvenuto quanto più volte avevo intravisto e temuto: lo scontro di civiltà preconizzato da Huntington non si è consumato come scontro di religioni ma come scontro di etiche, con gli effetti devastanti di una maggiore divisione e contrapposizione nella "polis" e, va detto, anche nella Chiesa. Da questi "giorni cattivi" usciamo più divisi e non certo per quella separazione in nome di Cristo che, con il comandamento nuovo dell’amore da estendersi fino ai nemici, può provocare divisione anche tra genitori e figli, all’interno della famiglia o della "casa" di appartenenza. Abbiamo invece conosciuto divisione in nome di quel male che affligge l’umanità e che trasforma la diversità in "demonizzazione" dell’altro, muta l’avversario in nemico, interrompe o nega il confronto e il dialogo, dando origine a posizioni ideologiche capaci di violenza prima verbale, poi fisica e sociale. Da un lato il "fondamentalismo religioso" che cresce, dall’altro un "nichilismo" che rigetta ogni etica condivisa, fanno sì che cessi l’ascolto reciproco e la società sia sempre più segnata dalla "barbarie".
Per chi come me ha pensato di dedicare tutte le fatiche alla ricerca del dialogo, del confronto, del faticoso cammino verso la comunione, innanzitutto nello spazio cristiano e poi tra gli uomini, e in questo sforzo sentiva di poter rendere conto della speranza cristiana che lo abita e di annunciare il "Vangelo" che lo anima, questi giorni sono davvero cattivi. Come ignorare anche gli altri segni di "barbarie" cui stiamo assistendo in questa amara stagione? Leggi che chiedono ai medici di segnalare alle forze dell’ordine la presenza di clandestini che necessitano di cure mediche, vanificando così il diritto alla salute riconosciuto a qualunque essere umano; episodi ormai ricorrenti di giovani e ragazzi che danno fuoco a immigrati o a mendicanti; "senzatetto" di cui si prevede la "schedatura" mentre li si lascia morire di freddo; esercizio della violenza in "branco" verso donne o disabili...
Sì, ci sono state anche voci di compassione, ma nel clamore generale sono passate quasi inascoltate. L’"Osservatore Romano" ha coraggiosamente chiesto – tramite le parole del suo "direttore", il tono e la frequenza degli interventi – di evitare "strumentalizzazioni" da ogni parte, di scongiurare lo scontro ideologico, di richiamare al rispetto della morte stessa. Ma molti "mass media" in realtà sono apparsi ostaggio di una battaglia frontale in cui nessuno dei contendenti si è risparmiato mezzi ingiustificabili dal fine. Eppure, di vita e di morte si trattava, realtà intimamente unite e pertanto non attribuibili in esclusiva a un campo o all’altro, a una cultura o a un’altra. La morte resta un enigma per tutti, diviene mistero per i credenti: un evento che non deve essere rimosso, ma che dà alla nostra vita il suo limite e fornisce le ragioni della responsabilità personale e sociale; un evento che tutti ci minaccia e tutti ci attende come esito finale della vita e, quindi, parte della vita stessa, un evento da viversi perciò soprattutto nell’amore: amore per chi resta e accettazione dell’amore che si riceve. Sì, questa è la sola verità che dovremmo cercare di vivere nella morte e accanto a chi muore, anche quando questo risulta difficile e faticoso. Infatti la morte non è sempre quella di un uomo o una donna che, sazi di giorni, si spengono quasi naturalmente come candela, circondati dagli affetti più cari. No, a volte è "agonia", lotta dolorosa, perfino "abbrutente" a causa della sofferenza fisica; oggi è sempre più spesso consegnata alla scienza medica, alla tecnica, alle strutture e ai "macchinari"...
Che dire a questo proposito? La vita è un dono e non una "preda": nessuno si dà la vita da se stesso né può conquistarla con la forza. Nello spazio della fede i credenti, accanto alla speranza nella vita in Dio oltre la morte, hanno la consapevolezza che questo dono viene da Dio: ricevuta da lui, a lui va ridata con un atto puntuale di obbedienza, cercando, a volte anche a fatica, di ringraziare Dio: "Ti ringrazio, mio Dio, di avermi creato...". Ma il credente sa che molti cristiani di fronte a quell’incontro finale con Dio hanno deciso di pronunciare un "sì" che comportava la rinuncia ad accanirsi per ritardare il momento di quel "faccia a faccia" temuto e sperato. Quanti monaci, quante donne e uomini "santi", di fronte alla morte hanno chiesto di restare soli e di cibarsi solo dell’Eucarestia, quanti hanno recitato il "Nunc Dimittis", il "lascia andare, o Signore, il tuo servo" come ultima preghiera nell’attesa dell’incontro con Colui che hanno tanto cercato... Negli anni più vicini a noi, pensiamo al Patriarca Athenagoras I e a Papa Giovanni Paolo II: due cristiani, due Vescovi, due Capi di Chiese che hanno voluto e saputo spegnersi acconsentendo alla "chiamata" di Dio, facendo della morte l’estremo atto di obbedienza nell’amore al loro Signore.
Testimonianze come queste sono il patrimonio prezioso che la Chiesa può offrire anche a chi non crede, come segno grande di un anticipo della vittoria sull’ultimo nemico del genere umano, la morte. Voci come queste avremmo voluto che accompagnassero il silenzio di rispetto e compassione in questi giorni cattivi assordati da un "vociare" indegno. La Chiesa Cattolica e tutte le Chiese Cristiane sono convinte di dover affermare pubblicamente e soprattutto di testimoniare con il vissuto che la vita non può essere tolta o spenta da nessuno e che, dal concepimento alla morte naturale essa ha un valore che nessun uomo può contraddire o negare; ma i cristiani in questo impegno non devono mai contraddire quello stile che Gesù ha richiesto ai suoi discepoli: uno stile che pur nella fermezza deve mostrare misericordia e compassione senza mai diventare disprezzo e condanna di chi pensa diversamente.
Allora, da una millenaria tradizione di amore per la vita, di accettazione della morte e di fede nella "risurrezione" possono nascere parole in grado di rispondere agli inediti interrogativi che il progresso delle scienze e delle tecniche mediche pongono al limitare in cui vita e morte si incontrano. Così le riassumeva la "lettera pontificale" di Paolo VI indirizzata ai "medici cattolici" nel 1970: "Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la ‘rianimazione vegetativa’ nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo: l’ora ineluttabile e sacra dell’incontro dell’anima con il suo Creatore, attraverso un passaggio doloroso che la rende partecipe della ‘passione’ di Cristo. Anche in questo il medico deve rispettare la vita".
Ecco, questo è il contributo che con rispetto e semplicità i cristiani possono offrire a quanti non condividono la loro fede affinché la società ritrovi un’etica condivisa e ciascuno possa vivere e morire nell’amore e nella libertà.

I santi, veri testimoni della fede

Trascriviamo questo articolo per ricordare un santo che rappresenta un vero esempio di sacerdozio per tutta la Chiesa.
Il modello

Nel 150° della morte del Santo curato d’Ars

Di Giorgio Bernardelli

Un umile parroco di provincia nella Francia dell’ottocento. Un prete che aveva addirittura incontrato difficoltà a essere ammesso in seminario, perché ritenuto non adatto agli studi. E un modello per generazioni di preti.
Giovanni Maria Vianney nasce a Dardilly l’8 maggio 1786, in una famiglia di contadini. Sono anni difficili per la Francia scossa dal laicismo della Rivoluzione Francese. Ed è in questo clima che Giovanni Maria matura la vocazione al sacerdozio. Se riesce a rispondere a questa chiamata, però, è solo grazie a un altro parroco, il curato di Ecully don Balley, che non si lascia scoraggiare dalle titubanze del giovane Vianney sulla grammatica latina. Così il 13 agosto 1815 Giovanni Maria viene ordinato sacerdote. I superiori non devono però averne una grande stima: nel febbraio 1818 viene mandato come curato ad Ars, 250 abitanti, il villaggio più piccolo della diocesi. Vi rimarrà per 41 anni.
Ars è una parrocchia di gente semplice, le ricadute degli anni tormentati che la Francia si è appena lasciata alle spalle si vedono soprattutto nell’abbandono della pratica religiosa da parte degli uomini. Ed è così che padre Giovanni Maria Vianney inizia a spendersi senza riserve per la conversione dei cuori di questi suoi fedeli. Vive innanzi tutto lui stesso una vita sacerdotale piena: è sempre disponibile per il suo gregge, non trascura la preghiera personale nell’adorazione eucaristica, coltiva una vita personale ascetica anche con il digiuno offerto per la salvezza delle anime. Parla senza mezzi termini dei pericoli delle osterie, ma soprattutto passa le sue giornate in confessionale a rendere visibile l’amore di Dio per l’uomo peccatore. “Le vostre colpe sono come un granello di sabbia rispetto alla grande montagna della misericordia di Dio”.
Le persone imparano a conoscerlo. E sempre più numerose si recano da lui anche dai paesi vicini. Vianney arriverà a trascorrere anche quindici ore della sua giornata in confessionale. E intorno a lui- oltre alla fama di santità- cominceranno a diffondersi anche le voci su eventi miracolosi. Ma padre Giovanni Maria cercherà sempre di distogliere l’attenzione dalla sua persona. Continuerà a vivere semplicemente la sua vita di parroco: la Messa, l’omelia, il confessionale, l’attenzione alle persone. Morirà il 4 agosto 1859. Già nel 1905 Pio X lo proclamerà beato; nel 1925- con Pio XI- arriverà la canonizzazione. Anche Giovanni XXIII era molto devoto del curato d’Ars al punto da dedicargli un’enciclica- la Sacerdoti Nostri Primordia- pubblicata cinquant’anni fa nel centenario della morte di Giovanni Maria Vianney.

In difesa del Papa


Il Cardinale Angelo Bagnasco ruggisce in difesa del Papa e sul biotestamento chiede la mobilitazione.



I vescovi italiani, ieri, un colpo esplicito in difesa di Papa Ratzinger l’hanno finalmente battuto. Il cardinale Angelo Bagnasco, infatti, in occasione dell’apertura del consiglio permanente della conferenza episcopale italiana, ha difeso Benedetto XVI innanzitutto in merito alla questione della revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e al successivo caso Richard Williamson che tante critiche, anche nelle gerarchie della Chiesa italiana, aveva sollevato. Quindi Bagnasco ha alzato la voce anche in merito al profluvio di critiche «pretestuose» che «si è prolungato oltre ogni buon senso» a seguito della parole che Benedetto XVI ha dedicato all’uso del preservativo per prevenire l’Aids appena prima della partenza per l’Africa di settimana scorsa. «Non accetteremo - ha detto il porporato - che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso». Sono stati i media, infatti, secondo il capo dei vescovi italiani, ad aver strumentalizzato il Papa offrendo le sue parole sull’Aids in pasto a quanti, sulla base dei loro resoconti, hanno decretato contro di lui «un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici».Come era prevedibile, la prolusione si è incentrata principalmente sulla vicenda della morte di Eluana Englaro e, più precisamente, sulla necessità di agire sul piano legislativo alla svelta. Se il caso di Eluana ha rappresentato «un’operazione tesa ad affermare un diritto di libertà inedito quanto raccapricciante», ovvero «il diritto a morire, darsi e dare la morte in talune situazioni da definire», spetta ora alla politica «agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che - in seguito al pronunciamento della Cassazione - preservi il paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo».Per Bagnasco qualunque «deriva eutanasica, per quanto circoscritta o edulcorata, è una falsa soluzione». «Nelle moderne democrazie - ha detto -, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere biopolitico sia della scienza sia dello Stato. Come vescovi non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, che trova sostanza nel fermo sì alla tutela dei diritti umani di tutti e in un altrettanto netto no alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti».Un passaggio della prolusione merita un approfondimento in più. È l’accenno fatto circa la mobilitazione dei laici sulle tematiche della vita in programma per volere della stessa Cei nei prossimi mesi. Forse per prevenire ogni dissidenza interna, o comunque e più probabilmente per spiegare meglio e in modo più puntuale il proprio punto di vista, la discesa in piazza dei cattolici è un’idea sancita settimana scorsa nella presentazione avvenuta al palazzo dei Cento Preti a Roma del manifesto “Liberi per vivere”, un manifesto lanciato direttamente dalle tre associazioni “benedette” dalla Cei, ovvero Scienza & Vita, Forum delle Associazioni familiari e RetinOpera. Un manifesto - ha detto Bagnasco - che va «incoraggiato e sostenuto». Lo scopo, in sostanza, è quello di spiegare la posta in gioco al paese «in termini antropologici e culturali», così da evitare nel futuro «ingorghi concettuali e tentazioni di delega».

Paolo Rodari

In difesa del Papa

Benedetto XVI in Africa
Il Papa alle donne africane: «L’aborto non è una cura»

E in Angola denuncia la corruzione e lo sfruttamento FRANCA GIANSOLDATI
dal nostro inviato LUANDA (Angola).
A Benedetto XVI non piace proprio la piega che gli Stati africani stanno prendendo: «sconcertante» inserire l’aborto tra le politiche sanitarie. Lo dice chiaro e tondo, senza troppi giri di parole, al presidente Dos Santos e agli ambasciatori africani al Palacio do Povo, il Palazzo del popolo, a Luanda, sede del governo di origini marxiste ma in tempi recenti convertito al liberalismo selvaggio, dopo la fine di una lunghissima guerra civile. «Quanto è amara l’ironia di coloro che promuovono l’aborto tra le cure della salute materna». La tesi che equipara «la soppressione della vita» ad una «questione di salute riproduttiva» è da rigettare in toto perché invece di fare «avanzare l’edificio sociale mina le sue stesse fondamenta». Cuore della critica è l’articolo numero 14 del Protocollo di Maputo, siglato dall’Unione Africana nel 2003 in Mozambico per dare maggiore tutela alla donna uniformando le singole legislazioni nazionali. Quasi tutte le nazioni africane lo hanno firmato ed è già stato ratificato dalla stragrande maggioranza. L’aborto per la morale cattolica resta sempre un male. La Chiesa africana promotrice di una massiccia campagna di promozione a difesa della dignità della donna, condivide ampiamente il contenuto di 31 articoli del Trattato. Uno solo non va giù, quello che contempla l’interruzione volontaria di gravidanza ed il diritto di scegliere i metodi contraccettivi all’interno di programmi sanitari. Un orientamento, peraltro caldeggiato anche da tante organizzazioni umanitarie sotto l’ombrello dell’Onu. Aborto a parte, ai politici africani, il Papa ha chiesto di battersi per governi trasparenti, orientati al bene comune. Come in Camerun, anche in Angola, meta del suo quarto giorno di viaggio, ha denunciato la corruzione, la povertà, la disoccupazione, lo sfruttamento. Il presidente Dos Santos lo ha ascoltato senza battere ciglio e al Vaticano ha chiesto esplicitamente di aiutare l’Africa presso l’Onu, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, facendo leva sul suo potere morale. In questo frangente segnato dalla crisi internazionale, ha detto il presidente, gli africani vorrebbero uscire dall’isolamento cui sono costretti.Atterrando a Luanda il Papa ha potuto osservare dall’alto come il petrolio abbia cambiato in pochissimo tempo il volto del Paese. Il porto era intasato da centinaia di petroliere in fila per potere entrare. Nonostante sia il secondo maggiore produttore di idrocarburi in Africa dopo la Nigeria, l’Angola resta uno dei paesi più poveri e il divario tra chi è ricchissimo - una ristretta elite legata al potere - ed il 90 per cento della popolazione che sopravvive nella sterminata distesa di baracche di fango e lamiere, colpisce subito. I cattolici - il 55% su una popolazione di 15 milioni - hanno accolto Papa Ratzinger a braccia aperte, invadendo le strade, organizzando processioni chilometriche, con scene di entusiasmo e allegria. A loro una raccomandazione: non arrendetevi mai alla «legge del più forte».
© Copyright Il Messaggero, 21 marzo 2009 consultabile online anche qui.
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domenica 22 marzo 2009

Speciale anno sacerdotale

Da giugno 2009

Posted: Sun, 22 Mar 2009 07:00:16 +0000
Il Papa annuncia l’indizione a giugno di uno speciale Anno Sacerdotale: il presbitero sia un testimone “riconoscibile” di Cristo

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Quello che inizierà il prossimo 19 giugno, per concludersi nella stessa data del 2010, sarà un “Anno Sacerdotale” che avrà lo scopo di sottolineare che ogni sacerdote deve tendere alla “perfezione spirituale”, perché il suo ministero sia efficace. L’annuncio è stato dato questa mattina da Benedetto XVI durante l’udienza alla plenaria della Congregazione per il Clero, che terminerà dopodomani. E’ importante, ha affermato fra l’altro il Papa, che il sacerdote sia ben formato sulla scia degli insegnamenti conciliari e sia sempre riconoscibile, nella moralità e nell’aspetto. Il servizio di Alessandro De Carolis:00:03:45:82 Santificare, insegnare, guidare. Dal momento in cui un vescovo gli impone le mani sul capo, la vita di un sacerdote deve dare testimonianza di questi tre valori. Valori che, ha affermato Benedetto XVI, “prima di essere un ufficio” sono “un dono”, grazie al quale il sacerdote partecipa a una “vita nuova”, acquisisce quello “stile” che fu di Gesù e quindi degli Apostoli. Ed è questa “partecipazione” alla vita di Cristo, che diventa anche una potestà, a rendere “necessaria, anzi indispensabile” la “tensione verso la perfezione morale”, ha indicato il Pontefice. Che ha poi annunciato: “Proprio per favorire questa tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero, ho deciso di indire uno speciale ‘Anno Sacerdotale’, che andrà dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il 150.mo anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo”. Poco prima, il Papa aveva ricordato che pure se duemila anni di “tradizione ecclesiale” hanno “svincolato l’efficacia sacramentale” di un sacerdote da quella che è la sua “concreta situazione esistenziale”, l’importanza della “formazione permanente” dei presbiteri resta una grande e delicata priorità, da condurre - ha rimarcato - “in comunione con l’ininterrotta tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità”. Ai vescovi, Benedetto XVI ha chiesto di coltivare “relazioni umane veramente paterne” con i loro primi collaboratori, “soprattutto - ha detto - sotto il profilo dottrinale”: “E’ importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II, interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa. Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa”. A sollecitare questa attenzione da parte del Papa è la consapevolezza dei “radicali cambiamenti sociali degli ultimi decenni”, che richiedono l’utilizzo delle “migliori energie ecclesiali” per la cura dei candidati al sacerdozio. Sacerdozio, ha insistito Benedetto XVI, che deve essere debitamente valorizzato poiché la sua missione, “nella Chiesa”, prende forma da Cristo, che ne è “il centro propulsore”: “In tal senso è necessario vigilare affinché le ‘nuove strutture’ od organizzazioni pastorali non siano pensate per un tempo nel quale si dovrebbe ‘fare a meno’ del ministero ordinato, partendo da un’erronea interpretazione della giusta promozione dei laici, perché in tal caso si porrebbero i presupposti per l’ulteriore diluizione del sacerdozio ministeriale e le eventuali presunte ’soluzioni’ verrebbero drammaticamente a coincidere con le reali cause delle problematiche contemporanee legate al ministero”. Benedetto XVI ha anche ricordato i quattro aspetti della missione sacerdotale. Essa, ha ribadito, è “ecclesiale” perché “nessuno annuncia se stesso” ma Dio. E’ “comunionale”, perché si svolge “in un’unità e in una comunione”. Ed è, infine, “gerarchica” e “dottrinale”: aspetti, ha osservato il Papa, che sottolineano “l’importanza della disciplina ecclesiastica” e, ancora una volta, della “formazione dottrinale, e non solo teologica, iniziale e permanente”.
da Radio Vaticana - Clips-ITA

Il Vangelo della domenica

Commento su Giovanni 3,14-21Agenzia SIR IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno B) (22/03/2009)Vangelo: Gv 3,14-21

Il Vangelo di questa domenica riporta la conclusione del lungo colloquio avvenuto – di notte – fra Gesù e Nicodemo, un vecchio fariseo definito "capo dei giudei". Colloqui notturni, per non compromettersi dinanzi ai suoi colleghi, fra un vecchio dottore della legge e un giovane rabbì di Nazareth. Nicodemo era convinto di sapere chi era Gesù e invece si sente provocato a ricominciare tutto da capo, a "rinascere dall'alto", pena il non comprendere affatto il mistero della salvezza accanto a quello della perdizione, il dono della speranza in risposta all'orizzonte della disperazione. Ebbene, Gesù addita a Nicodemo il simbolo del serpente di bronzo che, nelle vicende dell'esodo, permise agli ebrei di salvarsi dai morsi di serpenti velenosi. Come quel serpente innalzato sul palo, così Gesù stesso, crocifisso sulla croce, avrebbe portato salvezza e redenzione a coloro che avrebbero creduto in lui. Gesù, inchiodato e innalzato sul colle Calvario, fino alla fine del mondo resta a braccia aperte, "perché chiunque crede in lui, non muoia, ma abbia la vita eterna". Impressiona ogni volta, fra mille parole lette o ascoltate ogni giorno, accostarsi a una pagina di Vangelo e ritrovarne alcune che rischiano sempre di perdere significato e forza evocativa. Una di queste parole è "redenzione", con altre che ne sono sinonimi o equivalenti: vita eterna, salvezza... Nel vortice degli avvenimenti quotidiani, grandi, piccoli o insignificanti che siano, ha ancora senso dire che la vita dell'uomo e di tutti gli uomini ha bisogno di essere salvata, di essere redenta? Perché, in caso negativo, perde significato anche l'incarnazione di Cristo, Figlio di Dio, crocifisso morto e risorto proprio per la nostra salvezza, ossia per la nostra redenzione, ossia il ritorno di ogni uomo e di ogni cosa alla santità, presso il Padre. Anche i santi si ponevano le domande su Gesù Cristo, ma dalla prospettiva giusta, quella del Padre. Così san Francesco di Sales: "Dio non poteva fornire al mondo un altro rimedio che quello della morte di suo Figlio? Certamente egli poteva farlo... poteva riscattarci (redimerci, salvarci, ndr) in mille altri modi che non fossero la morte di suo Figlio, ma non l'ha voluto, perché ciò che era sufficiente per la nostra salvezza non lo era per il suo amore; e per mostrarci quanto ci amava, questo Figlio divino è morto della morte più dura e ignominiosa, quella sulla croce". Quanti colloqui "notturni" viviamo anche noi in lotta con Dio, come Giacobbe con l'angelo: perché il male, perché il dolore innocente, perché la guerra, perché la separazione... perché? Come Gesù con Nicodemo, anche Dio si fa paziente con noi, e ci concede udienza, ma la risposta è sempre la stessa: ogni parola e ogni risposta di Dio è già detta e già data in Gesù, nel suo mistero di morte e resurrezione, di dolore e di salvezza. Passerà la storia e non cesserà la contrapposizione tra la nostra pretesa di scalare e conquistare il cielo e l'umiltà di Dio che scende in terra e si concede a noi. Alla fine il vecchio Nicodemo riuscirà a "rinascere dall'alto": nei giorni decisivi della passione, lui sarà lì, vicino al crocifisso. Ne chiederà il corpo per la sepoltura e offrirà una sua tomba – nuova, mai usata! – per accoglierlo. Sicuramente Nicodemo non era lontano neppure il mattino di Pasqua... Dio è quasi sempre immaginato come un essere lontano, astratto, una specie di inestricabile sistema di idee inspiegabili. E invece, ci dice il Vangelo di oggi, l'essere di Dio è una concreta vita di comunione che liberamente si apre anche all'uomo, chiamandolo a parteciparvi. Nel Figlio, il Padre ci dona la vita nuova dello Spirito. Liberamente, per amore. Il Figlio, Gesù, non s'impone. Per assurdo, noi possiamo passare accanto al Signore che muore e risorge e non degnarlo neppure di uno sguardo. Se invece ci apriamo, accogliendolo, allora è la redenzione, la salvezza, la grazia. Fin d'ora inizia la vita nuova, ed è vita eterna. Gesù è la permanente immagine visibile dell'amore del Padre. Eppure gli stessi apostoli, guardando Gesù semplicemente con i loro occhi, non vedevano il Padre. Per "vederlo" dovranno riflettere su quello che Gesù faceva e diceva. In questo senso l'incarnazione e tutta la vita del Figlio fece loro conoscere l'amore infinito del Padre. Indispensabile è l'esperienza, ma altrettanto lo è la riflessione credente su di essa. Già Agostino diceva che "una fede che non è pensata, non è fede". È inevitabile: a un pensiero debole corrisponde una fede debole.
Commento a cura di don Angelo Sceppacerca

sabato 21 marzo 2009

In difesa del Papa

IL PAPA E IL MONDO

Dall’Africa: perché il Papa ha ragione, di Anna Pozzi

«Una polemica che non ha ragion d’es­sere» . Etienne Pagot, coor­dinatore diocesano della sanità dell’arcidiocesi di Doaula e responsabile dei programmi di lotta contro l’Aids, è sorpreso del pol­verone sollevato dalla di­chiarazioni di Benedetto XVI sull’uso del preserva­tivo. Dichiarazioni che, del resto, non hanno trovato vasta eco in Camerun. «Le abbiamo vissute come qualcosa di già detto – con­tinua Pagot –. E se non fos­sero state rilanciate con grande enfasi dai media internazionali, probabil­mente sarebbero rimaste sullo sfondo. D’altra parte, è lo stesso linguaggio che noi teniamo ogni giorno sul terreno: astinenza e fe­deltà sono mezzi più sicu­ri per prevenire e combat­tere la diffusione dell’Aids. Questione di realismo e di buon senso» . Il vero problema, sostiene, è proprio il « gran rumore sollevato sulla questione del preservativo, che ha fatto passare in secondo piano non solo gli altri te­mi trattati dal Pontefice, ma la stessa questione del­l’Aids che ha ben altre ri­percussioni: sanitarie, so­ciali, psicologiche, cultu­rali, spirituali… » . Il sospetto, secondo Pagot, è che « chi è lontano da questi problemi, che per noi sono quotidiani e cru­ciali, dà un’importanza ec­cessiva a un aspetto speci­fico e non centrale, svian­do l’attenzione dalle vere questioni» . «La mia impressione – gli fa eco Martin Jumbam, ex direttore della Maison des communications sociales (Macacos) di Douala – è che il Papa qui in Camerun abbia toccato i temi e le sfi­de più urgenti per questo continente. È quello di cui tutti, dai media alla gente, parlano qui: pace, giusti­zia, riconciliazione, ma an­che la sofferenza materia­le e spirituale degli africa­ni, il tema forte della fami­glia, quello della povertà e dell’oppressione. I discor­si del Santo Padre hanno suscitato grande impres­sione. E continuano a far discutere la gente» . Jumban, che è perfetta­mente bilingue e guarda con attenzione i media in­ternazionali, nota una dis­sonanza tra la copertura locale e quella straniera. «Qui si continua a sottoli­neare la portata storica di questo viaggio del Ponte­fice, e delle ripercussioni che potrà avere sul nostro Paese e sulla sua Chiesa. I media internazionali han­no insistito quasi unica­mente sulla questione del preservativo, che da noi è passata quasi inosservata». Chi non si è fatto sfuggire l’occasione di ironizzare sulle dichiarazioni del Pa­pa è stato invece l’irrive­rente Messager Popoli, in­serto satirico che esce set­timanalmente con il gior­nale Le Messager, princi­pale quotidiano indipen­dente camerunese. Il suo direttore, tuttavia, usa to­ni ben più pacati: «Dal mio punto di vista – dice Njawé, che è anche uno dei principali alfieri della libertà di stampa in Came­run – il Papa ha ragione ad esprimersi in questi termi­ni e soprattutto a ribadire che la fedeltà e l’astinenza sono i mezzi migliori per combattere l’Aids. Tuttavia quando lo si dice in Africa subsahariana, la regione al mondo maggiormente colpita da questo flagello, occorre farlo con una cer­ta prudenza ed evitare i ri­schi di fraintendimento: non si deve infatti lascia­re la porta aperta alla ne­gligenza, che qui da noi si­gnifica morte» .Quanto al giornale di go­verno, il Cameroon Tribu­ne, elenca tra le dichiara­zioni di Benedetto XVI di cui far tesoro quelle sulla famiglia e sul ruolo dei ma­riti, per nulla scontate in quel contesto. Nonché le parole rivolte ai giovani: « Di fronte alla difficoltà della vita, custodite il co­raggio e lasciatevi toccare da Cristo » . «Verginità e ce­libato non diminuiscono in nulla la dignità del ma­trimonio» , riporta il gior­nale, commentando: «Questo almeno ha il gran­de vantaggio di essere chiaro». © Copyright Avvenire, 21 marzo 2009 consultabile online anche qui.
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giovedì 19 marzo 2009

San Giuseppe





Uno dei veri testimoni del Vangelo è il santo che la Chiesa ricorda in questo giorno: San Giuseppe, sposo di Maria e padre terreno di Gesù.

Auguri a tutti i papà.

La liturgia, in questa ricorrenza, ci presenta il vangelo di Luca.

VANGELO (Lc 2,41-51)
"Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo".
+ Dal Vangelo secondo Luca

I genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: "Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo". Ed egli
rispose: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?". Ma essi non compresero le sue parole.
Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso.
Parola del Signore.

OMELIA
Sposo di colei che sarebbe stata Madre del Verbo fatto carne, Giuseppe è stato prescelto come "guardiano della parola". Eppure non ci è giunta nessuna sua parola: ha servito in silenzio, obbedendo al Verbo, a lui rivelato dagli angeli in sogno, e, in seguito, nella realtà, dalle parole e dalla vita stessa di Gesù.
Anche il suo consenso, come quello di Maria, esigeva una totale sottomissione dello spirito e della volontà. Giuseppe ha creduto a quello che Dio ha detto; ha fatto quello che Dio ha detto. La sua vocazione è stata di dare a Gesù tutto ciò che può dare un padre umano: l'amore, la protezione, il nome, una casa.
La sua obbedienza a Dio comprendeva l'obbedienza all'autorità legale. E fu proprio essa a far sì che andasse con la giovane sposa a Betlemme e a determinare, quindi, il luogo dell'Incarnazione. Dio fatto uomo fu iscritto sul registro del censimento, voluto da Cesare Augusto, come figlio di Giuseppe. Più tardi, la gioia di ritrovare Gesù nel Tempio in Giuseppe fu diminuita dal suo rendersi conto che il Bambino doveva compiere una missione per il suo vero Padre: egli era soltanto il padre adottivo. Ma, accettando la volontà del Padre, Giuseppe diventò più simile al Padre, e Dio, il Figlio, gli fu sottomesso. Il Verbo, con lui al momento della sua morte, donò la vita per Giuseppe e per tutta l'umanità.
La vita di Giuseppe fu offerta al Verbo, mentre la sola parola che egli affida a noi è la sua vita.

MEDITAZIONE
San Giuseppe non era indispensabile, come invece Maria, per la nascita di Dio fra gli uomini, ma lo era per la nascita di Dio in una famiglia umana.
Perché una famiglia deve avere un capofamiglia, e Giuseppe, anche se infinitamente inferiore al suo figlio adottivo in dignità e alla sua sposa in santità, era il vero "capo" della Santa Famiglia. Dio stesso l'ha riconosciuto come capofamiglia: fu a lui che inviò l'angelo per avvertire la Santa Famiglia di fuggire in Egitto e, più tardi, di tornare in Palestina. Quando Giuseppe comandò, Gesù e Maria obbedirono. Il Figlio di Dio e la Regina del cielo gli furono sottomessi.
Se la gerarchia in santità e in dignità era: Gesù, Maria e, infine, Giuseppe, in autorità era all'opposto: Giuseppe, Maria e, infine, Gesù.
Ma il suo rapporto con Gesù non era soltanto un rapporto di autorità: era anche un rapporto d'amore e di affetto familiare profondo. Non possiamo infatti dubitare che Gesù amasse, con tutto l'ardore del suo Sacro Cuore, colui che il Padre Eterno aveva designato perché fosse suo padre sulla terra. Maria, da parte sua, era piena di amore coniugale nei confronti di colui che lo Spirito Santo aveva scelto perché fosse suo sposo e protettore. Più tardi Gesù avrebbe detto ai Giudei che molti profeti e re avevano desiderato poterlo vedere ed ascoltare, ma non avevano vissuto abbastanza per vedere esaudita la loro speranza.
A Giuseppe invece fu concesso non solo di vedere e di ascoltare il Figlio unigenito di Dio, ma anche di tenerlo fra le braccia (molte statue lo ritraggono in questo atteggiamento), di tenerlo per mano, di sentire il suo abbraccio affettuoso, di insegnargli a camminare e a parlare, di avviarlo al suo mestiere di falegname e di essere a parte delle sue confidenze mentre, per anni, lavoravano insieme fianco a fianco.
Possiamo affermare che, in tutta la lunga storia dell'umanità, nessuna creatura, eccetto Maria, fu mai ammessa ad un'intimità così stretta con Dio.
Mons. LAWRENCE MCREAVY

martedì 17 marzo 2009

In difesa del papa

Il pastore non abbandona nessuno

Il teologo spiega perché

di Manuel Nin


Il 12 marzo 2009 Papa Benedetto XVI pubblica una sua lettera "fraterna" ai vescovi della Chiesa Cattolica "riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall'arcivescovo Lefebvre". Infatti il giorno 21 gennaio 2009 Papa Benedetto aveva provveduto a togliere la scomunica ai quattro vescovi che erano stati ordinati nel 1988 senza il mandato della Santa Sede.Si tratta di un testo papale che non ha né il carattere di enciclica, neppure quello di esortazione apostolica, ma direi che semplicemente e niente di meno è una lettera fraterna indirizzata ai vescovi. Si tratta di un testo molto diretto, scritto con schiettezza da un fratello ai fratelli; testo che ha quattro caratteristiche a partire dalle quali vorrei leggerlo: serenità, sincerità, lucidità e umiltà. Serenità in quanto si tratta di un testo non aggressivo né accusatorio; allo stesso tempo è sincero e chiaro in quanto manifesta quello che Benedetto XVI sente e vive in questa vicenda; lucido in quanto non nasconde le difficoltà del momento ecclesiale presente, umile perché riconosce gli sbagli fatti nella procedura e nell'informazione sui fatti accaduti. Il testo della lettera può articolarsi in diverse parti.In primo luogo, si tratta di una lettera indirizzata a tutti i vescovi della Chiesa Cattolica; l'argomento trattato non tocca soltanto alcuni episcopati che potrebbero essere più coinvolti nel tema, neanche è indirizzata agli episcopati magari più contrari e critici verso il provvedimento e verso il Papa stesso, ma è indirizzato a tutto l'episcopato cattolico. Dall'inizio Benedetto XVI situa il problema trattato nella lettera: cioè la perplessità che all'interno e fuori della Chiesa ha suscitato la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani, perplessità manifestatasi con "una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata", e con delle accuse ben precise dirette al Papa stesso, cioè "di voler tornare indietro, a prima del Concilio". Da partecipante e coinvolto fino in fondo nel Vaticano II, il Papa si sente particolarmente ferito da quest'accusa. Lungo tutto il suo magistero come vescovo di Roma ha manifestato la sua continuità filiale e dottrinale col Vaticano II. Poi per quanto riguarda la perplessità degli stessi vescovi, Benedetto XVI ne elenca due: da una parte il loro sì alla riconciliazione coi lefebvriani, ma senza dimenticare i problemi più urgenti che la Chiesa dovrebbe affrontare; dall'altra gli attacchi contro il Papa stesso vengono visti come un far venire a superficie vecchie ferite, "una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento". Nella lettera il Papa risponde soprattutto alla prima delle perplessità; la seconda invece, un argomento in qualche modo più ad hominem viene lasciato da parte.In secondo luogo Benedetto XVI mette direttamente sul tavolo della discussione il "caso Williamson". Il fatto di affrontarlo subito indica come questa "conseguenza" all'interno del processo non sia per niente minimizzata neppure secondaria. La remissione della scomunica è stata "un gesto discreto di misericordia"; e questa sarà in fondo la linea portante di tutta la lettera, cioè la remissione della scomunica non tanto vista come un fatto canonico ma un fatto che va visto e vissuto all'interno del ministero di misericordia e di riconciliazione del vescovo di Roma, di qualsiasi vescovo della Chiesa. Il Papa manifesta la sua perplessità per il fatto che quello che doveva essere un invito alla riconciliazione si è trasformato nel suo contrario, letto anche in chiave di opposizione al dialogo con gli ebrei. Un fatto che il Papa deplora profondamente perché questo dialogo è frutto sì di un cammino ecclesiale che risale al Vaticano II e al pontificato di Giovanni Paolo II, ma anche del suo "personale lavoro teologico". Interessante notare questo doppio collegamento che il Papa teologo fa nel dialogo con gli ebrei, sia a livello ecclesiale, sia anche a livello di ricerca teologica. In questo secondo punto è importante far notare la schiettezza di Benedetto XVI nell'indicare l'utilità di internet e anche la mancanza di un uso largo e completo di esso che avrebbe facilitato la conoscenza dei fatti; il Papa ne prende atto direi con umiltà e realismo.Comunque con la stessa chiarezza che segna tutta la lettera Benedetto XVI si presenta ai suoi fratelli nell'episcopato "ferito dall'ostilità di alcuni", "grato alla fiducia di altri". Un terzo argomento trattato dal Papa nella lettera, e da lui stesso riconosciuto come uno sbaglio palese, è il fatto della disinformazione al momento della remissione delle scomuniche: "La portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione". E qui Benedetto XVI da buon professore trae spunto dal suddetto sbaglio e spiega cos'è la scomunica: essa è un provvedimento ecclesiale che colpisce persone, che cerca di evitare nei limiti del possibile uno scisma, infine è una "punizione dura" che dovrebbe servire a richiamare al pentimento e al ritorno alla piena comunione. Quindi per il Papa la scomunica è più una pedagogia verso la piena comunione che non una lacerazione nella comunione ecclesiale. Fu alla prima udienza generale dopo la remissione delle scomuniche che Benedetto XVI diede dei chiarimenti sulla portata ecclesiale e dottrinale dei fatti avvenuti; lui stesso in quell'udienza cercò di colmare i vuoti informativi dei giorni precedenti. Nella lettera il Papa distingue chiaramente tra disciplina ecclesiale e dottrina, sottolineando la centralità e importanza sia della persona sia della dottrina della Chiesa. In questa parte della lettera vengono fuori l'imprescindibile doppia figura di pastore e di teologo di Papa Ratzinger: "La remissione della scomunica era un provvedimento nell'ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall'ambito dottrinale".Come diretta conseguenza del terzo argomento ve n'è un quarto, ovvero il collegamento che dovrà avvenire tra la commissione Ecclesia Dei e la Congregazione per la Dottrina della Fede.Portando il problema lefebvriano a livello dottrinale, il Papa ha pertanto agito proprio in maniera contraria rispetto a quanto affermato da una certa lettura dei fatti "come se niente fosse...", anzi arriva a un vero e proprio "c'è molto in gioco". Troviamo in questa parte forse il punto più importante della lettera, che segna tutto il magistero di Papa Ratzinger nei suoi grandi documenti: "Non si può congelare l'autorità magisteriale della Chiesa all'anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità San Pio X. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano ii porta in sé l'intera storia dottrinale della Chiesa".Un quinto argomento (e qui il Papa teologo fa ritorno al Papa pastore) mette in luce i veri problemi della Chiesa. Non si tratta di una giustificazione.Si è trattato piuttosto di dire in modo schietto che il problema lefebvriano (e il boom mediatico che ha suscitato la remissione della scomunica) non lo distolgono nel suo ministero pastorale rispetto a quelli che sono i veri problemi e priorità che la Chiesa deve affrontare. Priorità legate al suo ministero di vescovo di Roma e alla chiamata all'evangelizzazione ricevuta dai vescovi, da tutti i cristiani. Questo è direi lo scopo di tutto il pontificato di Benedetto XVI, dall'omelia ad eligendum fatta ancora da cardinale alla vigilia del conclave del 2005, all'omelia all'inizio di pontificato fino alle catechesi settimanali. Di nuovo ancora da teologo, Benedetto XVI dà due definizioni che saranno fondamentali per capire tanti momenti del suo pontificato, quella di dialogo ecumenico e quella di dialogo interreligioso: "Lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - ecumenismo - è incluso nella priorità suprema (...) la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace".Tornando al punto iniziale della lettera, Benedetto XVI si interroga sul perché un atto che doveva essere di riconciliazione ha fatto tanto chiasso; un atto che il Papa stesso mette a un livello prettamente evangelico. La riconciliazione per il Papa è veramente necessaria: non è lecito abbandonare la pecora smarrita; mai Benedetto XVI nega che si tratti di pecore smarrite; ed è per questo che agisce da buon pastore.A questo punto, avviandosi verso la fine della lettera, Benedetto XVI apre il cuore di pastore grato e allo stesso tempo ferito, e riconosce in tutte le situazioni ecclesiali le cose buone e allo stesso tempo quelle che sono fuori posto: "le cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi".A conclusione della lettera, Benedetto XVI collega sia la lettera sia soprattutto i fatti - remissione della scomunica, reazioni suscitate e la stessa presente lettera - alla lectio da lui stesso fatta del testo di Galati, 5, 13-15 al Seminario Romano per la festa della Madonna della Fiducia a metà febbraio di quest'anno: ""Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!". Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l'uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l'amore?".I fatti che hanno suscitato la presente lettera sono analizzati lucidamente e schiettamente da Papa Ratzinger, e lui stesso ne prende atto, nelle cose buone e negli sbagli commessi e sicuramente evitabili, per fare che il governo collegiale della Chiesa col vescovo di Roma - a cominciare dagli episcopati mondiali fino agli organismi della Santa Sede a Roma - siano strumenti di collaborazione per il bene di tutta la Chiesa.Queste righe sono nate da una lettura della lettera di Benedetto XVI, un testo a cuore aperto di un fratello ai fratelli. Siamo di fronte a un testo che ci manifesta quei quattro aspetti sì di Joseph Ratzinger, ma soprattutto di Benedetto XVI nel suo ministero come vescovo di Roma, aspetti a cui facevamo riferimento all'inizio di queste righe: serenità, sincerità, lucidità ed umiltà.Siamo di fronte a uno dei grandi testi del magistero pontificio di Papa Ratzinger, Papa pastore, Papa teologo, Papa da un cuore umano e umile capace di rallegrarsi e di soffrire con e per i suoi fratelli e i suoi figli.(©L'Osservatore Romano - 16 - 17 marzo 2009)

sabato 14 marzo 2009

Il vangelo della domenica

Trascriviamo il commento al vangelo della III domenica di Quaresima a cura di Enzo Bianchi ( Priore della comunità di Bose)

Gv 2,13-25

15 marzo 2009

L’itinerario quaresimale che la chiesa ci invita a percorrere passa anche attraverso la lettura del vangelo secondo Giovanni; per questo, tralasciando la narrazione di Marco, in questa e nelle prossime due domeniche contempliamo alcune parole e gesti di Gesù testimoniati dal quarto vangelo.
Oggi viene raccontato un gesto compiuto da Gesù a Gerusalemme, in occasione della celebrazione della festa di Pasqua (cf. anche Mc 11,15-18 e par.): entrato nel tempio, egli vede che lo spazio chiamato “atrio delle genti”, in quanto riservato ai non-ebrei che volevano conoscere la fede e il culto di Israele e “avvicinarsi” al Signore (cf. Is 45,20), è stato trasformato in luogo di commercio, di vendita degli animali per i sacrifici. Sappiamo inoltre che lì i cambiavalute scambiavano le monete per consentire ai pellegrini di pagare il tributo al tempio, e che molti attraversavano quel cortile per accorciare il cammino verso la valle del Cedron. Insomma, un luogo che Dio aveva voluto come “casa di preghiera per tutte le genti” (Is 56,7) era diventato un luogo di mercato…
Questo gesto suscita immediatamente una domanda da parte dei giudei là presenti: “Quale segno ci mostri per compiere queste cose?”. Come sempre gli uomini religiosi si affrettano a “chiedere segni” (cf. 1Cor 1,22) in grado di comprovare l’autorità di Gesù… In risposta a tale richiesta Gesù, come avviene abitualmente nel quarto vangelo, ri-vela, alza il velo sulla propria identità, e lo fa rivolgendosi ai suoi interlocutori con un ironico imperativo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”. Sì, dice Gesù, voi metterete a morte e annienterete il tempio di Dio che sono io, ma in tre giorni io lo rialzerò! Ecco la grande rivelazione: ormai la dimora di Dio non si trova più nel tempio di Gerusalemme, ma il corpo di Gesù è la vera dimora di Dio. Il luogo dove tutti gli uomini possono incontrare Dio è Gesù, un uomo, una carne umana che è anche la Parola di Dio, il Figlio stesso di Dio. Dio è presente ovunque, ma c’è un sito, un luogo in cui egli abita in modo unico e speciale: se nell’antica economia tale luogo era il tempio di Gerusalemme, ora è Gesù, sito del Dio invisibile. Ecco perché – secondo le parole di Gesù alla donna samaritana – ormai chi adora Dio non lo adora più né a Gerusalemme né sul monte Garizim, ma in Spirito santo e Verità, che è Gesù Cristo (cf. Gv 4,23-24).
Il nostro brano, apertosi con l’affermazione che “era vicina la Pasqua dei giudei”, sfocia sull’annuncio fatto da Gesù della sua Pasqua. In essa non saranno più necessari gli animali come vittime sacrificali – per questo sono scacciati dal tempio –, ma Gesù sarà la vittima pasquale a causa del suo zelo, del suo amore ardente per Dio: sarà proprio questo amore a divorarlo (cf. Sal 69,10), a essere cioè la causa della sua morte violenta… Ci viene così annunciata la vicina Pasqua di Gesù quale termine del cammino quaresimale, e ci viene anche rivelata l’esistenza di un tempio nuovo, già annunciato dai profeti, un tempio non più fatto di pietre ma costituito dal corpo di Gesù: corpo di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio; corpo che siamo noi innestati in lui, noi dimora di Dio (cf.1Cor 3,16; 6,19), tempio nel quale siamo chiamati a offrire a Dio il vero sacrificio, quello della nostra vita quotidiana (cf. Rm 12,1).
Enzo Bianchi


domenica 8 marzo 2009

Festa della donna

Auguri a tutte le donne

Care Donne

Cosa vogliamo festeggiare Donne care?
Le nostre vite sono ancora dure e amare.

Ogni giorno in una stanza o sopra un prato
botte da orbi e più di uno stupro viene consumato.

Ancora siamo serve di più padroni
contiamo solo se portiamo a casa soldoni.


Cosa vogliamo festeggiare Donne care?
Sulla terra son molte ancora le Donne da salvare.

Molte delle nostre sorelle sparse qua e là
procreano, sudano, lavorano e continuano a lavorar.

Quest’anno troppo diffuso è il dolore
cuori e corpi son straziati dal sesso senza amore,

da pensieri di orchi nascosti
da luride mani immerse nella melma dei fossi.

Continuiamo a denunciare chi calpesta la nostra dignità!
Continuiamo a perseguire chi le nostre ali vorrebbe spezzar!

Un abbraccio fortissimo,
Ilaria Ricciotti

sabato 7 marzo 2009

Il vangelo della domenica

Seconda domenica di Quaresima
Trascriviamo il commento del biblista don Fabio Rosini, per riflettere sul significato profondo della Trasfigurazione.

La Trasfigurazione (Mc. 9,2-10)

Questa lettura è messa nella seconda domenica di quaresima perché di fatto essa ci lancia verso la Pasqua.
In questo cammino quaresimale di trasformazione c’è un anticipo dell’apparizione di Cristo risorto: è l’esperienza del tempo della conversione.
La domanda subito da fare è: per quale motivo Pietro propone di fare le tre tende? Il riferimento è alla festa delle Capanne che faceva presente il tempo nel deserto in cui Israele è stato trasformato in un popolo e in cui viveva nelle capanne.
Nel vangelo di Giovanni ai capitoli 7, 8, 9 si parla di come si celebrava la festa delle capanne secondo la tradizione ebraica: l’importante era andare all’aperto, stare in una capanna e ascoltare la Parola di Dio, stare alla luce, guardare verso la luce.
Il deserto era il tempo in cui Dio aveva parlato di persona con il suo popolo, con Mosè sul Sinai dandogli i dieci comandamenti. Le capanne avevano il tetto aperto, avevano al centro un’apertura perché bisognava guardare il cielo, la luce.
In Gerusalemme per la festa delle capanne erano accesi tanti bracieri sulla spianatoia del tempio e i Rabbi dicevano:” I nostri padri prima di Abramo guardavano ad oriente, noi guardiamo verso il nostro Dio, è Lui la nostra luce”. Ci sono poi le letture di tutti i salmi che parlano della realtà di aver incontrato il Signore , di come essere passati dall’idolatria dell’Egitto alla fede nell’unico Dio.
La parola di questa domenica ci dice come Gesù ha fatto celebrare a Pietro, Giacomo e Giovanni la festa delle capanne: li porta in disparte, fuori in un luogo, su di un monte altissimo dove loro dovevano guardare vero l’alto. Questo luogo è l’immagine della preghiera perché ci deve succedere che la nostra vita cambi, che cambino le radici del nostro essere, perché veniamo trasformati.
L’esperienza della trasfigurazione è la stessa della Quaresima, è il doversi mettere in disparte per guardare verso Gesù e vedere che Lui cambia di forma, che Gesù appare come nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere bianco nessun vestito e questo è segno che c’è qualcosa che va oltre le nostre opere, oltre le nostre tecniche di sopravvivenza. Una persona cambia le radici del proprio essere quando in lei cambia il volto di Dio: finché Dio è un estraneo, finché Dio è una banalità o qualcosa che non tocca la propria vita o che non la coinvolge allora si cerca di arrangiarsi, di tirare a campare. Quando appare questo parlare sicuro e imbarazzato di Pietro che dice:”Signore è bello per noi stare qui” Gesù, in quel momento, appare bello al centro di Mosè e di Elia che sono l’immagine di tutte le scritture: Gesù è il centro di tutte le scritture ed è bello. Dio ci appare bello quando incominciamo a capirlo.
La prima lettura ci parla del sacrificio di Isacco da parte di Abramo che sale sul monte sapendo di un Dio che è come gli dei cananei che chiedevano il sacrificio dei primogeniti, ma poi scende dal monte sapendo che Dio non ha nulla da chiedere ma ha solo da dare: Abramo scende dal monte Moria con un’ immagine di Dio trasformata e una benedizione nel cuore. Dio non chiede il primogenito ma lo darà.
In questa festa della Trasfigurazione siamo chiamati a fare un’esperienza che cambia la vita, che cambia l’idea che si ha di Dio: se Dio è un estraneo, un duro o un inesistente allora la luce con cui guardare le cose è una luce ansiosa, preoccupata e devo bastare a me stesso. In questo brano appare ciò che nessun lavandaio sulla terra può darci, appare lo splendore che nessun opera umana può raggiungere: appare il volto di Dio e allora sono uscito dalla condizione di Adamo che non poteva guardare in faccia Dio perché se ne vergognava, perché aveva dubitato e se ne nascondeva. Finalmente, in Cristo, Dio diventa guardabile, diventa bello, finalmente recuperiamo la verità di Dio. Dio è affidabile, è bello ed è bello stare con Lui: questo dobbiamo ricordare quando dovremo affrontare lo scandalo della croce.
don Fabio Rosini

giovedì 5 marzo 2009

Per una Chiesa più Santa

Cari amici,
sono una sostenitrice di papa Benedetto XVI e con questo articolo, voglio spendere qualche parola a difesa di questo Pontefice tanto attaccato, incompreso e solo.
Oggi il Papa è accusato di essere lontano dalla gente, di non essere popolare e di essere distante dalle realtà delle varie parrocchie: ma chi si preoccupa di aiutare il papa? Di informarlo di quella che è la situazione pastorale della Chiesa in Italia e nel mondo? Quello che manca a questo pontefice (ma anche ai suoi predecessori) è la collaborazione di persone di buona volontà che lo aiutino nella sua missione con vero spirito cristiano e ciò è quello che manca anche in tutta la Chiesa: la presenza di testimoni autentici del Vangelo. La mentalità di questo secolo, purtroppo ha contagiato, con il suo relativismo, anche molti ambienti ecclesiastici e tanti cattolici (ogni giorno se ne vedono le conseguenze).
Il Santo Padre si trova solo a riaffermare quei principi fondamentali cristiani che si sono persi e allora è attaccato, accusato di essere lontano dalla gente, di essere addirittura contro il Concilio e di tante altre falsità.
Voglio rivolgere un appello ai tanti cattolici: riscopriamo il vero volto Di Cristo e, sull'esempio di San Francesco, aiutiamo il Papa e la Chiesa a svolgere al meglio la loro missione evangelizzatrice e caritatevole, sostenendo entrambi con le nostre preghiere ma, se occorre, anche sporcandoci le mani per rimuovere tutto ciò che ferisce e indebolisce questo Corpo Santo di Cristo.
Coraggio amici, Il Dio della Speranza è con noi.
Un saluto, Marina