domenica 31 gennaio 2010

San Giovanni Bosco


Sacerdote, fondatore

Giovanni Bosco, al secolo Giovanni Melchiorre Bosco, meglio noto come Don Bosco, nacque il 16 agosto 1815 al Colle dei Becchi, una località presso Castelnuovo d 'Asti, ora Castelnuovo Don Bosco. Di famiglia povera si preparò, fra stenti ed ostacoli, lavorando e studiando, alla missione che gli era stata indicata attraverso un sogno fatto all'età di nove anni e confermata più volte in seguito, in modo straordinario.
Studiò a Chieri, a pochi chilometri da Torino. Tra le belle chiese di Chieri, Santa Maria della Scala (il duomo) fu la più frequentata da Giovanni Bosco, ogni giorno, mattino e sera. Pregando e riflettendo davanti all'altare della Cappella della Madonna delle Grazie egli decise il suo avvenire.
A 19 anni voleva farsi religioso francescano. Informato della decisione, il parroco di Castelnuovo, don Dassano, avvertì Mamma Margherita con queste parole molte esplicite:
“Cercate di allontanarlo da questa idea. Voi non siete ricca e siete avanti negli anni. Se vostro figlio va in convento, come potrà aiutarvi nella vostra vecchiaia?”. Mamma Margherita si mise addosso uno scialle nero, scese a Chieri e parlò a Giovanni: “Il parroco è venuto a dirmi che vuoi entrare in convento. Sentimi bene. Io voglio che tu ci pensi e con calma. Quando avrai deciso, segui la tua strada senza guardare in faccia nessuno. La cosa più importante è che tu faccia la volontà del Signore. Il parroco vorrebbe che io ti facessi cambiare idea, perché in avvenire potrei avere bisogno di te. Ma io ti dico. In queste cose tua madre non c'entra. Dio è prima di tutto. Da te io non voglio niente, non mi aspetto niente. Io sono nata povera, sono vissuta povera, e voglio morire povera. Anzi, te lo voglio subito dire: se ti facessi prete e per disgrazia diventassi ricco non metterò mai più piede in casa tua. Ricordatelo bene”.
Giovanni Bosco quelle parole non le avrebbe dimenticate mai. Dopo molta preghiera, ed essersi consultato con amici e con il suo confessore Don Giuseppe Cafasso, entrò in seminario per gli studi della teologia.
Fu poi ordinato sacerdote a Torino nella chiesa dell'Immacolata Concezione il 5 giugno del 1841.
Don Bosco prese con fermezza tre propositi:
“Occupare rigorosamente il tempo. Patire, fare, umiliarsi in tutto e sempre quando si tratta di salvare le anime. La carità e la dolcezza di San Francesco di Sales mi guideranno in ogni cosa”.
Venuto a Torino, fu subito colpito dallo spettacolo di centinaia di ragazzi e giovani allo sbando, senza guida e lavoro: volle consacrare la sua vita per la loro salvezza.
L'8 dicembre 1841, nella chiesa di S. Francesco d 'Assisi, ebbe l'incontro con il primo dei moltissimi ragazzi che l'avrebbero conosciuto e seguito: Bartolomeo Garelli. Incomincia così l'opera dell'Oratorio, itinerante al principio, poi dalla Pasqua 1846, nella sua sede stabile a Valdocco, Casa Madre di tutte le opere salesiane.
I ragazzi sono già centinaia: studiano e imparano il mestiere nei laboratori che Don Bosco ha costruito per loro. Nella sua opera educativa fu aiutato da sua madre Mamma Margherita, che fece venire dai Becchi, per sostenerlo e perché facesse da mamma a tanti suoi ragazzi che avevano perso i propri genitori.
Nel 1859, poi, invita i suoi primi collaboratori ad unirsi a lui nella “Congregazione Salesiana”: rapidamente si moltiplicheranno ovunque oratori, scuole professionali, collegi, centri vocazionali, parrocchie, missioni.
Nel 1872 fonda l'“Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice” (FMA) che lavoreranno in svariate opere per la gioventù femminile. Cofondatrice e prima superiora fu Maria Domenica Mazzarello (1837-1881) che verrà proclamata santa il 21 giugno 1951, da Pio XII.
Ma Don Bosco seppe chiamare anche numerosi laici a condividere con i Salesiani e le Figlie di Maria Ausiliatrice la stessa sua ansia educativa.
Fin dal 1869 aveva dato inizio alla “Pia Unione dei Cooperatori” che fanno parte a pieno titolo della Famiglia Salesiana e ne vivono lo spirito prodigandosi nel servizio ecclesiale.
A 72 anni, sfinito dal lavoro, secondo quanto aveva detto: “Ho promesso a Dio che fin l'ultimo mio respiro sarebbe stato per i miei poveri giovani”, Don Bosco muore a Torino-Valdocco, all'alba del 31 gennaio 1888, lasciando al suo successore Don Michele Rua (proclamato beato il 29 ottobre 1972 da Pp Paolo VI), 700 religiosi in 64 case disseminate in 6 paesi.
Fu beatificato il 2 giugno 1929 e dichiarato santo da Pio XI il l aprile 1934, domenica di Pasqua.
In seguito, molti altri sono venuti a gettare nei solchi semi di vita: San Domenico Savio, il Beato Don Rua, il Beato Don Rinaldi...affinché il terreno continuasse ed essere fertile, anche dopo Don Bosco.
La “Famiglia salesiana” conta circa 402.500 membri in 130 paesi nei cinque continenti; essi sono divisi in 23 organizzazioni differenti, che sono venute sorgendo lungo gli anni, e che hanno preso ispirazione dal sistema e dal carisma di Don Bosco.
Le tre prime, che sono state create già ai tempi di Don Bosco, sono Le Figlie di Maria Ausiliatrice (14.880), I Cooperatori Salesiani (circa 26.615) e gli Ex-Allievi di Don Bosco (circa 97.357). (Fonte: CG26 e Dati Statistici, 2008)
Significato del nome Giovanni : "il Signore è benefico, dono del Signore" (ebraico).





«Fai anche da noi i miracoli di Cafàrnao!».


Quarta domenica del tempo ordinario.

Gesù come Elia ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei.

+ Dal Vangelo secondo Luca 4,21-30

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
Parola del Signore

Commento

«Fai anche da noi i miracoli di Cafàrnao!». Più che Dio vogliono miracoli, il cielo a portata di mano a garantire salute e benessere. Anch'io preferisco apparizioni e prodigi ai profeti, come loro: assicura pane e miracoli e saremo dalla tua parte! Moltiplica il pane e ti faremo re (Gv 6,15). Gesù stesso ha dovuto affrontare la tentazione dei miracoli: buttati, verrà un volo di angeli a portarti! Ma Gesù sa che con il pane e i miracoli non si liberano le persone, piuttosto ci si impossessa di loro. Dio invece non si impossessa di nessuno, Dio non invade, si propone. Perché l'uomo non ama colui chi si impone: sarà anche ubbidito, ma non amato. E Dio vuole essere amato da questi liberi, splendidi e meschini figli. Non farò miracoli qui, dice Gesù, li ho fatti a Cafarnao e a Betsaida, il mondo è pieno di miracoli eppure non bastano mai, non fanno credere: Gesù risuscita Lazzaro e i farisei decidono non di seguirlo ma di ucciderlo! Il punto di svolta del racconto è in una domanda: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Che un profeta sia un uomo straordinario, una personalità eccezionale, siamo pronti ad accettarlo. Ma che la profezia sia di casa nella casa del falegname, in uno che non è neanche sacerdote o scriba, che ha le mani segnate dalla fatica, come le mie, che ha più o meno i problemi che ho io, con quella famiglia così così, ci pare impossibile. Ma lo Spirito accende il suo roveto all'angolo di ogni strada. La Parola è dispersa in sillabe in ogni volto. Non sprechiamo i nostri profeti! Nessuno è profeta in patria: è detto a me che non so più ascoltare con attenzione, guardare con meraviglia le persone di tutti i giorni. L'abitudine ha spento l'incanto. Eppure non devo cercare lontano per intuire l'eco della voce di Dio, lo scintillio della sua luce: basta che riprenda a guardare con occhi nuovi, come se fosse la prima volta, ciò che credo di conoscere bene: i volti di chi mi vive accanto, il quotidiano ritorno della luce, le parole della preghiera che ripeto distratto, i riti dell'amicizia e dell'amore... I miracoli accadono davvero. Io li ho visti: ho visto genitori risorgere dopo il dramma atroce di un figlio morto, famiglie disarmarsi e perdonare la violenza subita, donne violate e tradite riprendere a sorridere e ad amare, persone capaci di dare tutto per un familiare o un bimbo sconosciuto, ho visto la primavera. I miracoli sono perfino troppi, per chi ha l'occhio puro. Salviamo lo stupore! È l'inizio della sapienza. (Letture: Geremia 1,4-5.17-19; Salmo 70; 1 Corinzi 12,31-13,13; Luca 4,21-30).
Ermes Ronchi



venerdì 29 gennaio 2010

PADRE MATTEO RICCI

LI MADOU XITAI

Ricorre quest'anno il quinto centenario dalla morte di Padre Matteo Ricci, un maceratese Sacerdote della COMPAGNIA DI GESU' (Gesuiti) giunto alla corte dell'imperatore cinese.

Questo gesuita nato mezzo millennio fa era anche astronomo, cartografo, meccanico di precisione, linguista, scrittore, filosofo. Andò all'altro capo del mondo conosciuto per portare anche lì quell'annuncio, l'unico annuncio importante, quello di Cristo.
Usò la filosofia greca per capire e far capire; adoperò la scienza e la tecnologia per vincere gli sbarramenti culturali; adattò il proprio nome e modo di vestire per potere essere accettato e avere la possibilità di esporre quanto gli stava a cuore.
Sono difficilmente immaginabili, oggi, le difficoltà che dovette superare. La sua storia, se vogliamo, è ben più avventurosa e sorprendente di quel Marco Polo tanto celebrato che però non seppe cambiare niente dei paesi da lui visitati.
Un uomo solo che viaggia per suo conto raramente lascia impronte durevoli. Perchè ciò accada, deve portare qualcosa di degno. Ricci aprì una strada percorsa da allora nei due sensi, che è ben visibile ancora oggi.

La vita

Padre Matteo Ricci nasce a Macerata da una nobile famiglia il 6 ottobre 1552. Ha un'educazione raffinata, secondo la sua condizione; il padre era farmacista e, oltre ad essere nobile , esercitava un'arte che in qualche maniera richiedeva studio, per cui, lui pure ha studiato. L'amore per le scienze, la chimica, gli esperimenti li ha imparati nella farmacia del padre. In seguito inizia, secondo le consuetudini della famiglia, gli studi di legge, ma proprio quando inizia questi studi si accorge che la sua strada non è quella di essere un brillante avvocato a Macerata o a Roma, ma la sua è un'altra strada: vuole entrare nella Compagnia di Gesù. Matteo rivela al padre questa sua intenzione mentre sta fuori; il padre non accetta questo, fa passare dei giorni, lo richiama e alla fine, per cercare di dissuaderlo, parte per andare a Roma. Durante il viaggio (vicino Tolentino) si ammala per una febbre improvvisa, violentissima e deve tornere indietro. Successivamente, quest'uomo fa una lettura di fede di quello che gli era capitato e non ostacola più la vocazione del figlio. Matteo entra così nella Compagnia di Gesù, compie gli studi ma, prima di diventare sacerdote, con altri 12 compagni, viene scelto, per la sua intelligenza molto viva, ad andare a Goa (India occidentale, impiegherà 6 mesi) dove i Gesuiti avevano avuto in precedenza una missione che si voleva rivitalizzare. Matteo continua a studiare, insegna nelle scuole e nei collegi gesuiti ( dove c'erano i figli delle persone più in vista dell'India), poi, ad un certo punto, inizia la preparazione immediata al sacerdozio e viene ordinato il 26 luglio 1580.
Dopo essere diventato sacerdote, padre Roberto de Nobili ( un missionario) lo richiede come suo compagno per una evangelizzazione in alcune zone vicine dell'India e poi con il progetto di andare in Cina. Padre Matteo diventa missionario e, con padre Ruggeri stabilisce la prima residenza missionaria a Zhaoqing in Cina.
 Essendo malvisti dagli abitanti, con un provvedimento delle autorità, vengono espulsi da Zhaoqing e copsì Padre Matteo fissa un'altra residenza nella città di Shaozhou dove comincia a conoscere la civiltà, la lingua, a parlarla e ad intrecciare i primi rapporti di amicizia. Padre matteo all'inizio, per entrare in rapporto con i cinesi si era vestito alla maniera degli uomini di cultura dei luoghi in cui si trovava. successivamente capisce che non serve.  Avendo acquisito buona padronanza della lingua, Padre Matteo inizia a scrivere opere nella lingua cinese e pensa di fare un report della fede in Gesù Cristo e partire da questo nel momento in cui  incontra delle persone, o fa delle riunioni, per confrontarsi con la fede delle popolazioni locali. Matteo scrive anche un libretto sull'amicizia nel quale ci sono delle frasi belle. Eccone alcuni esempi:

  • il mio amico è la metà di me stesso, anzi un altro me stesso, per cui lo devo trattare come tratto me stesso.

  • Sebbene l'amico e io abbiamo due corpi, nei due corpi c'è un solo cuore. Prima di contrarre amicizia bisogna osservare bene, essere prudenti, dopo averla contratta ci si deve fidare.

  • Se le virtù e gli ideali di due amici sono simili, l'amicizia sarà forte. L'ideogramma amico (nella lingua cinese) è formato da due come, esso sta a significare che l'amico è me ed io sono lui.

  • Dio ha dato agli uomini due occhi, due orecchie, due mani, due piedi, per farci capire che si può portare a buon fine qualunque cosa se due amici si aiutano tra loro. Nell'antica scrittura cinese l'ideogramma amico era formato da due mani, delle quali non si può fare a meno, perchè insieme agiscono meglio. L'ideogramma compagno era composto da due ali, solo con esse un uccello può volare. Non è forse così che gli antichi saggi hanno considerato gli amici?

  • La lode fra amici è facile in pratica, ma la sopportazione reciproca qualche volta risulta difficile. Quasi tutti gli amici sono sensibili alle lodi nei loro confronti, ma non ricordano le virtù degli altri.

  • Se non sarai amico di te stesso, come farai a esserlo degli altri?
Padre Matteo Ricci nel 1596, durante il suo viaggio verso Pechino, apre a Nanchang una terza residenza missionaria dove si fermerà fino dal 1595 al 1598.
Nel 1599 raggiunge Pechino ma viene invitato ad andare via perchè c'è in atto una guerra e si ferma così a Nanchino. Il 19 maggio del 1600 parte di nuovo per la seconda volta verso Pechino, ma viene fermato in una città ad un centinaio di chilometri da Pechino da un ministro della corte dell'imperatore che gli vuole rubare tutti i doni che egli vuole portare all'imperatore.
Nel 1601 viene riferito all'imperatore della fama e dei legami che padre Matteo aveva stretto con persone significative del mondo della cultura, dell'arte e della musica. L'imperatore lo chiama così a Pechino il 24 gennaio e padre Matteo consegna tutti i doni che era riuscito a strappare a quel ministro.
Mentre sta a Pechino, riceve una piccola casa, in cui può fermarsi, alloggiare, allestire una cappella per le celebrazioni e scrivere delle opere interculturali dove mette a confronto fede cattolica e buddismo-scintoismo...
Contemporaneamente Padre Matteo aiuta molti funzionari della corte a fare dei progetti, utilizzando la sua abilità in matematica e geometria (progetti per bonifiche, progetti idraulici, per costruire ponti sui fiumi che in Cina sono abbondanti).
Padre Matteo scrive delle opere di carattere morale e pubblica nuove edizioni degli studi sul mappamondo, facendo vedere che c'erano tante diverse popolazioni e civiltà. Dà vita a una congregazione religiosa con persone che vogliono vivere la spiritrualità che lui sta cominicando, dal nome "Confraternita Madre di Dio", e poi si occupa di risiedere stabilmente nel luogo e vuole cominciare a fare delle opere che in qualche maniera potessero permettere una evangelizzazione (di ragazzi, di persone adulte, dimostrazioni, lezioni di matematica, scienze, astronomia).
Ad un certo punto, per il gran carioco di lavoro, si ammala gravemente  il 3 maggio 1610  e  l'11 maggio muore. Matteo dice ai confratelli:" Vi lascio davanti a una porta aperta, io sono convinto che questa porta potrà essere valicata e ci sarà un futuro, però per ora non intravedo una situazione migliore".

Padre Matteo Ricci è il primo straniero che ha l'onore di essere seppellito in Cina.
Egli aveva evangelizzato tantissima gente, anche funzionari imperiali, ma i battesimi sono stati pochi. La sua opera non è stata facile, lui ha seminato, successivamente qualcun altro ha raccolto.
Padre Matteo all'inizio, per entrare in rapporto si era vestito alla mainera degli uomini di cultura dei luoghi in cui si trovava. Il suo modo di essere aveva suscitato invidia tra i suoi confratelli. Per questo ha sofferto molto, ma anche perchè non riceveva corrispondenza dai suoi familiari.
Padre Matteo ha dimostrato ai cinesi che chi entrava nella Chiesa cattolica attraverso il battesimo non doveva rinunciare a quelle cose che sono caratteristiche della vita cinese. Diventare cristiani non era in contrasto con l'essere cinesi. (Padre Matteo in un certo senso vive la stessa esperienza della prima comunità cristiana, che si accorge che aderire al Vangelo, a Gesù Cristo non è in contrasto con gli usi e le caratteristiche di una civiltà).
Altra cosa importante è che ci sono degli elementi in comune tra quello che i cinesi credevano e la fede cristiana e padre Matteo ha insistito molto su questo. Egli valorizzava tutto quello che loro credevano (es. che Dio è creatore, che è Signore di tutte le cose, che la vita è sacra, che ogni persona ha una dignità, che la vita continua dopo la morte) attraverso un lavoro lento, paziente, che non dava risultati immediati, ma che si rivelava molto costruttivo perché demoliva tutti i pregiudizi che c'erano verso gli occidentali. Padre Matteo capisce che non c'è solo da apprezzare la cultura, ma c'è da servirsi della cultura dei popoli che si incontrano e cercare di valorizzare quelli che sono i punti in comune.
Quindi Padre Matteo ha intuito l'esigenza di accogliere la diversità, di  inculturare la fede, di valorizzare aspetti, tradizioni, leggende, racconti, attese, usi, cerimonie dei cinesi perchè dove c'era coincidenza o dove si poteva stabilire un legame con la fede cristiana, era più facile  trasmettere il messaggio evangelico partendo dalle esperienze di queste perone.
Padre Matteo Ricci ha aperto una strada che poi il Concilio Vaticano II ha fatto propria, per cui oggi, tutti i missionari inculturano la fede.
Padre matteo Ricci ha cercato soprattutto rappoprti umani, perchè l'annuncio del vamgelo passa attraverso le relazioni, l'accoglienza dell'altro.
Padre Matteo è stato un inventore, un musicista, un uomo cordiale , uomo di intercultura, ma fondamentalmente è stato un Apostolo, un missionario, testimone del Vangelo. Tutte queste modalità, strade che lui ha percoprso per annunciare il vangelo sono state dei mezzi. Tutte queste sue qualità, tutte le opere che ha portato hanno lentamente contribuito a ridimensionare la concezione che i cinesi avevano di se stessi: di essere al centro del mondo, di essere i più evoluti, i più civili, , essendo chiusi nella loro terra, privi di rapporti con l'Occidente (tranne quelli commerciali, attraverso la via della seta).

Pur avendo riconosciuto le tante virtù di questo missionario sulla base di studi, opere...viene da chiedersi come mai quest'uomo non sia  stato mai beatificato...Purtroppo, dai gesuiti non viene nessuna collaborazione; loro, in questo momento vogliono portare avanti la beatificazione di altri confratelli...questo forse lo ritengono lontano, non sappiamo...
In ogni modo, per il quinto  centenario dalla sua morte sono state allestite mostre ( è sta allestita una interessante mostra in Vaticano), fatti sussidi multimediali, sono stati stampati dei libretti in collane dirette ai ragazzi, ci saranno celebrazioni liturgiche, convegni ad alto livello. Ci sarà un  pellegrinaggio  a Roma dal Papa per invitarlo a partecipare alle celebrazioni e ci sarà un pellegrinaggio dei giovani gesuiti a Macerata. Ci sarà un premio artistico letterario intestato a Padre Matteo che sarà consegnato a chi darà un contributo alla evangelizzazione in rapporto con la cultura.
Presto si insedierà il Tribunale Diocesano per la causa di beatificazione di Padre Matteo e la commissione storica: un passo importante verso un traguardo auspicato da molti.
Per me che sono Maceratese, essere concittadina di un personaggio del calibro di  padre Matteo Ricci è motivo di grande orgoglio soprattutto per ciò che egli ha testimoniato con la sua vita di missionario e apostolo cristiano.



mercoledì 27 gennaio 2010

GIORNATA DELLA MEMORIA

Finalmente un articolo che mette nella luce giusta il senso di questa giornata in cui si ricorda l'olocausto ebreo. Ma  anche altri crimini di cui l'umanità è stata vittima.

Cultura ebraica contro l'orrore

di Anna Foa

Cresce di anno in anno il numero delle iniziative volte a celebrare la giornata della Memoria, giunta quest'anno alla decima edizione. E a questo proliferare di celebrazioni si accompagna anche un crescendo di riflessioni e di dubbi, volti non certo a mettere in discussione il valore e la necessità della memoria, ma a valutarne le modalità, i fini e non ultimo anche il rischio di una sua sterilizzazione, tale da renderla sempre più rituale e sempre meno in grado di accogliere le sollecitazioni e le domande dell'oggi. Domande che hanno alle spalle nuovi genocidi, nuovi razzismi, nuove persecuzioni dell'altro. Come far loro spazio in questa costruzione memoriale sempre più fossilizzata?
In effetti, la memoria della Shoah sta diventando un oggetto da venerare, non più da elaborare. A una memoria in via di costruzione – e basata sul fenomeno, inedito nella storia, delle testimonianze, in quella che una storica francese, Annette Wieviorka, ha chiamato l'era dei testimoni – si è sostituita negli ultimi anni una memoria in qualche modo definita, istituzionalizzata.
In questo passaggio, questa memoria si è allargata dall'essere una memoria essenzialmente ebraica al divenire una memoria sociale, condivisa. E questo è il maggiore merito di questa trasformazione. Molti altri gli svantaggi, dall'approssimazione di molte delle iniziative, alla sostituzione del rigore della conoscenza con la celebrazione e la moda.
Finora, a parte le critiche venute da chi vuole negare spazio e legittimità alla memoria della Shoah, le domande e i dubbi sono arrivati principalmente dalle istituzioni ebraiche. Tutte coinvolte al massimo grado nella partecipazione a questa giornata, ma anche in grado, proprio perché impegnate nell'elaborazione della memoria da molto prima che essa fosse istituzionalizzata, di valutare le differenze che l'istituzione della giornata ha portato nel rapporto con il mondo non ebraico. Tenendo conto soprattutto delle generazioni più giovani, che non possono non sentire questo passato distante dalla loro vita e dai loro problemi di oggi. E a cui, non dimentichiamolo, i siti web propongono in maniera assillante discorsi negazionisti o apertamente antisemiti.
Per il mondo ebraico, però, il rischio non è soltanto quello dell'imbalsamazione della memoria, ma anche quello di trasmettere un'immagine passiva degli ebrei, di mostrarli solo sotto l'aspetto delle vittime. La storia ebraica è stata anche una storia di creatività, di cultura, di rapporto con l'esterno, di comune elaborazione di civiltà.
All'immagine che vede negli ebrei solo masse di cadaveri ammonticchiati nei lager, il mondo ebraico ha così risposto attraverso una riproposizione all'esterno delle sue espressioni culturali e della sua storia, a sua volta affidata all'istituzione di giornate celebrative quali la giornata della cultura ebraica, quella della letteratura ebraica eccetera.
Ha risposto, insomma, separando nettamente la vita degli ebrei dalla loro morte. In queste ricorrenze, gli ebrei cercano di far conoscere la loro storia, rivolgendosi al mondo dei non ebrei, aprendogli le loro sinagoghe, i loro musei, offrendogli la lettura dei loro scrittori e dei loro poeti. Nella giornata della Memoria, invece, si ricorda una storia che è storia di tutti, come di tutti è il ricordo.
Essa non è la celebrazione di un mondo ebraico ostinato a celebrare il suo lutto, ma memoria di una frattura nella storia del secolo scorso e dell'intera umanità. Non sono sicura che questa separazione fra vita e morte sia giusta e sia utile alla comprensione.
Insomma, come evitare tutti questi scogli, come navigare sicuri tra il rischio di rendere troppo particolare il ricordo, quello di renderlo troppo monumentale, e quello di ricordare solo l'antisemitismo e non gli ebrei in carne e ossa, uomini e donne reali, non meri simboli dell'orrore subìto? Uomini e donne che hanno saputo far poesia nella morte, cantare nell'orrore, essere insomma umani in mezzo allo scatenarsi dell'inumanità.
Il compito è difficile, e lo diventerà sempre di più mano a mano che la memoria dei protagonisti e dei loro immediati discendenti si affievolirà. Eppure, se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Lo diceva Primo Levi, e forse la strada da percorrere è semplicemente quella che lui ha tracciato in queste parole illuminanti: conoscere.



martedì 26 gennaio 2010

Israel: il crocifisso fa bene anche ai giudici...


Riporto un articolo che ancora una volta riguarda il CROCIFISSO. Infatti, e' proprio notizia di questi giorni la sentenza emessa dalla Magistratura nei confronti del giudice Tosti di Camerino che si rifiuta di tenere udienze in aule con esposto il crocifisso. Curioso che sia Giorgio Israel, un ebreo, a  rispondere a delle domande sul caso.

Giorgio Israel

Dunque, mentre i giudici di Strasburgo hanno decretato la rimozione del crocifisso dalle aule scolastiche, il Consiglio Superiore della Magistratura in Italia ha rimosso dall’ordine giudiziario il giudice Luigi Tosti che si rifiuta di tenere udienze in aule dove il crocifisso è esposto. In realtà, il CSM non si è pronunciato sulla questione generale, bensì circa il fatto che un funzionario statale non ha il diritto di rifiutarsi di lavorare su quelle basi. Ma la questione resta aperta. Può sembrare curioso che di essa si occupi un ebreo, ma ho voluto rispondere positivamente alla richiesta del Sussidiario per sollevare una problematica generale connessa e troppo spesso elusa. In certe forme l’esposizione di un simbolo religioso può configurare una prevaricazione della fede e delle convinzioni altrui (potrei farne esempi), ma il crocifisso si presenta nei locali pubblici italiani come simbolo dei principi morali che derivano dalla fede religiosa della maggioranza della popolazione e che sono radicati nella storia e nella civiltà del paese.
Accetto quel simbolo come riferimento al terreno comune “noachico” condiviso con i cristiani. Nei termini in cui la contesa si sta configurando, penso che la rimozione del crocifisso rappresenterebbe una vittoria di chi pensa che quelle tradizioni religiose e storiche non abbiamo più alcun diritto, e un segnale preoccupante.
Tuttavia, se l’argomento portante per difendere l’esposizione del crocifisso è che esso è un riferimento per la maggioranza della popolazione, occorre che sia davvero così. Ora, io penso che sia ancora così, ma non mi affiderei troppo alle statistiche che, ad esempio, parlano di un 95% (o più) di adesioni all’ora di religione scolastica.
La vera domanda è: quante di queste adesioni sono frutto di consuetudine e quante sono davvero sentite? L’esperienza mi fa dire che esiste un distacco crescente e un’insofferenza che fa parte del disinteresse montante per l’esperienza religiosa. La “questione crocifisso” emerge come sintomo di questo disinteresse. È alla malattia, non al sintomo, che bisogna guardare.
C’è chi crede che si possa ostacolare questo andazzo vezzeggiando proprio la mentalità e le tendenze contrarie alla morale religiosa che deriva dalla tradizione ebraico-cristiana. È assurdo ridurre l’ebraismo a una sorta di polizia municipale del politicamente corretto, di “testimonial” dell’antirazzismo e della tolleranza, come tendono a fare certi ambienti ebraici “progressisti”.
L’esperienza religiosa non è riducibile a prese di posizioni “aperte” sulla questione degli immigrati, sul matrimonio gay o sull’aborto. La religione è innanzitutto fede in Dio e la morale ebraica (e cristiana) ha come riferimento i Dieci Comandamenti, non il programma politico di un movimento libertario. Analogamente per il mondo cristiano e cattolico in particolare.
Non ho spazio per dare i tantissimi esempi che mi vengono alla mente. Mi limito a dire, in termini molto generali, che mi sfugge come, in nome di un malinteso senso di tolleranza, si possa concedere tanto a dottrine, filosofie e sviluppi scientifici che sono incompatibili con una visione spirituale e sono invece compatibili soltanto con il più duro materialismo.
Non capisco come si possa tacere sulle persecuzioni di cui sono oggetto i cristiani in tanta parte del mondo, e considerare quasi soppraffattorio chiedere un principio di reciprocità nella pratica religiosa. Non capisco quale sia il senso di parte delle lezioni di religione nelle scuole, il cui scopo principale sembra essere quello di trasmettere un’immagine simpatica, accattivante e tollerante di ogni “devianza”, anziché di trasmettere il senso profondo del messaggio morale cristiano.
A che serve puntare i piedi su un’ora di religione così? Non è vero che sia impossibile forare la barriera dello scetticismo, ma l’unico modo di non riuscirvi è di cercare di accattivarsi gli scettici mettendosi in sintonia con il loro tono disincantato e “blasé”. Infine, mi lascia di sasso la leggerezza con cui tanti religiosi si adattano a teorie pedagogiche coerenti soltanto con lo scientismo materialista più radicale.
In ambito ebraico ho assistito con stupore alla passione per il pedagogismo di Makarenko, in ambito cattolico è stupefacente la superficialità con cui ci si appiattisce su certo pedagogismo scientista alla Dewey o alla Morin e persino sulle teorie pedagogiche basate sulle neuroscienze e l’analisi delle aree cerebrali. Ho letto Don Giussani e sono convinto fermamente che le sue visioni sono totalmente incompatibili con la pedagogia dell’autoapprendimento e del “cooperative learning”.
Da questo punto di vista, rappresenta un pregevolissimo sussulto di consapevolezza il volume “La sfida educativa” prodotto dal Progetto Culturale della CEI, con la sua dura critica dell’ideologia aziendalistico-tecnocratica dell’educazione vista come «saper fare», come istruzioni a «come fare», come filastrocca delle conoscenze/competenze/abilità, dell’ideologia dell’ «apprendere ad apprendere» che dimentica che educare è, in primo luogo, «contenuti, valori e visioni del mondo».
Si chiederà cosa c’entri tutto questo con l’esposizione del crocifisso. C’entra, e come. L’accettazione del valore universale di un simbolo non è garantita dalle statistiche né una volta per tutte. Essa scaturisce dall’adesione a valori capaci di riempire la vita di senso.
Altrimenti, le modalità efficienti di sopravvivere sono meglio titolati a realizzarle altri: quel simbolo potrà essere rimpiazzato dalla foto di qualche neuroscienziato o di qualche pedagogista dell’autoformazione. Oppure da altri profeti. Perché la necessità di valori universali è tale che, quando non trova il nutrimento di un pensiero gentile e tollerante ma forte, alla ricerca di certezze può dilagare disastrosamente sul terreno del fondamentalismo.


sabato 23 gennaio 2010

Gesù realizza le parole del profeta



"Lo Spirito del Signore [... ] mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore". Queste sono le parole lette da Gesù nella sinagoga di Nazareth e lui le realizza: libera i prigionieri dal male e dall'ignoranza di Dio, restituisce la vista del cuore a coloro che leggono le Scritture e non le sanno capire, libera gli oppressi dalla rigidità dei farisei rendendo visibile la Grazia di Dio. Gesù rivoluziona le regole e le convezioni sociali del suo tempo e della sua nazione. Ottimo! Ma noi qui e ora? Quanti sono fedeli a queste parole? Quanti poveri abbiamo liberato dalla miseria spirituale e materiale? Quante persone sole abbiamo accolto? Quanti ammalati abbiamo consolato? Quanti ciechi del cuore abbiamo tentato di dissuadere dai loro propositi disumani? Gesù annuncia e fa concretamente, compie le opere di Dio. A noi resta il compito di agire nel qui e ora della nostra vita, delle nostre giornate, nell'ambito del nostro piccolo o grande potere. Certo, s'intende se amiamo veramente Gesù e il nostro prossimo. Facciamo in modo che oggi si adempia questa Scrittura.

Dal Vangelo secondo Luca

Lc 1,1-4; 4,14-21

Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: "Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore".
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: "Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi".


IL COMMENTO DI SUOR PIERA CORI.
 Le letture di questa terza domenica del tempo ordinario, sono un inno vero e proprio alla Parola di Dio e al suo Popolo chiamato a proclamarla, ascoltarla e ad accoglierla. Parola che meraviglia, stupisce come afferma il brano del Vangelo; commuove e dona gioia come testimonia la prima lettura. Sembrano frasi quasi scontate, perché in teoria già sappiamo ciò che la Parola è e dona. Il salmo responsoriale ne sottolinea meravigliosamente tutti gli aspetti. Ma allora perché nelle nostre assemblee, questa parola annunciata e ascoltata non produce gli stessi atteggiamenti descritti nelle letture di oggi? Perché il più delle volte noi cristiani usciamo dalle assemblee liturgiche con lo stesso stato d'animo con il quale siamo entrati? Luca nel prologo mostra l'atteggiamento necessario affinché la Parola sia accolta in modo tale che pervada la vita, e la trasformi in gioiosa testimonianza. "Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin dal principio e divennero ministri della Parola, così anch'io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teofilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto" (Lc. 1,1-4).

LA FEDE. La fede è ascolto, è ricerca, è incontro. La fede è Ascolto. Un ascolto senza barriere, senza filtri, senza condizioni. La fede è Ricerca. La stessa dell'uomo che ha sentito parlare di una perla preziosa di grande valore e di un tesoro immenso nascosto in un campo, e, nel desiderio di trovare quella "fortuna", si mette in viaggio pieno di gioia per conquistarlo. La fede è Incontro personale con Colui che ti ha fatto e continua a farti Grazia, cioè a colmarti di splendore. Solo così la Parola è davvero accolta e può tradursi in racconto, in testimonianza. Racconto di una esperienza, di un fatto, di un evento che parla anche di te, ma soprattutto di Colui che di questo evento è il tesoro. Luca, non ha conosciuto Gesù, però l'esperienza che ha di lui è così forte e pregnante che lo porta a scrivere di lui con la stessa forza dei primi testimoni. Egli nel prologo degli Atti afferma che la sua opera è il racconto di "tutto quello che Gesù fece e insegnò fin dal principio" (Atti 1,1). La parola proclamata, annunciata è come un seme posto nel terreno della nostra vita; necessita di terra buona per far frutto. Essere terra buona vuol dire essere in movimento. Luca una volta ascoltato l'annuncio, si mette in ricerca, dice lui stesso che fa "ricerche accurate" su ogni circostanza per scrivere poi "un resoconto ordinato in modo che tu (Teofilo) (ma ogni altro Teofilo), possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto".

LA PAROLA SI REALIZZA. L'uomo che ascolta davvero la Parola, ascolta una chiamata che lo pone in cammino, in viaggio verso l'incontro con Colui che del viaggio è la meta. Ascoltare e accogliere è andare verso Dio che ti ama, che ti fa Grazia, che compie e realizza le Scritture per la tua gioia, per la tua salvezza. Non è forse questa la notizia delle notizie? Non è questa la bella fortuna: sapere che "oggi" nella mia vita si realizza la speranza annunciata? Noi però siamo chiusi non riusciamo a vedere. Vogliamo toccare con mano. Facciamo fatica a credere che quella Parola per mostrarsi ha bisogno di compiersi attraverso una adesione cristiana, cioè uguale a quella di Cristo, di Gesù, che accogliendo la Parola del profeta Isaia, la compie, la realizza nella propria storia con un atteggiamento di vita altro che porta e dona liberazione. Liberazione già compiuta come compiute sono tutte le promesse in Gesù ma che necessita di altri cuori, di altre mani, di altre voci per mostrarsi, per rendersi visibile nell'oggi della chiesa e della storia. Che il Signore ci doni la grazia dello stupore degli abitanti di Nazareth e la gioia del popolo di Israele il giorno della grande liturgia al ritorno dall'esilio, perché possiamo essere una comunità che in comunione, annuncia ciascuno secondo il suo carisma, la speranza e si impegni nel concreto ad essere luce per chi vive ancora nelle tenebre, libertà per chi è ancora prigioniero, consolazione e cura in ogni male.

giovedì 21 gennaio 2010

L’inferno di Haiti e il Paradiso


Tratto dal blog- lo Straniero - di Antonio Socci

Basta un piccolo starnuto del pianeta, in un minuscolo francobollo di terra come Haiti, e sono spazzati via migliaia di esseri umani. Anche un microscopico virus è in grado di uccidere milioni di persone. Sono tutte manifestazioni di una stessa fragilità, di uno stesso destino. Tutti documenti della nostra misera condizione mortale.

C’è una sola “malattia”, trasmessa per via sessuale, che porta inevitabilmente alla morte l’umanità intera e non ha cure possibili. Non è l’Aids. Ne siamo affetti tutti, ad Haiti come qui. Si chiama: vita.

E’ una “malattia” anche stupenda (per questo la scrivo fra virgolette), è una “malattia” che amiamo, a cui stiamo attaccati con le unghie e con i denti. Ma solitamente non riflettiamo sulla sua natura effimera e quindi l’amiamo in modo sbagliato, dimenticando che dobbiamo scendere alla stazione e siamo destinati a un’altra dimora.

Quando arrivano grandi tragedie, personali o collettive, apriamo gli occhi sull’estrema fragilità della nostra esistenza e – svegliandoci – ci sentiamo quasi ingannati. Come se non sapessimo che siamo di passaggio.

Sì, siamo tutti malati terminali. Ma noi dimentichiamo di essere sulla soglia della morte dal primo istante di vita. Lo rimuoviamo.

Anzi, quasi tutto quello che facciamo ogni giorno ha questa segreta ragione: farci dimenticare il nostro destino, esorcizzare la morte, preannunciata dalla decadenza fisica, dalle malattie, dalla sofferenza, dal dolore altrui. Distrarci, come diceva Pascal: il “divertissement”.

Ormai la nostra mente è organizzata come un vero e proprio palinsesto televisivo: c’è la mezz’ora dedicata alla tragedia di Haiti dove magari si chiama a parlarne non i missionari, non organizzazioni come l’Avsi che da anni lavorano in quelle povere terre, ma Alba Parietti e Cristiano Malgioglio. Poi, subito dopo, il telecomando passa ai quiz, alle ballerine sgallettanti, alle chiacchiere (politica o sport) eccetera.

Tutti modi – si dice – “per ingannare il tempo”. In realtà per ingannare noi stessi, per dimenticare il destino . Perché il nostro insopprimibile desiderio è di vivere sempre, è di essere felici, e ci è insopportabile l’idea della morte e dell’infelicità.

Così, anche quando parliamo seriamente di tragedie come quelle di Haiti, con la faccia compunta, tocchiamo tutti i tasti fuorché quello.

Parliamo dell’emergenza (e va bene), degli aiuti da mandare (e va benissimo), della miseria di quei luoghi (verissima), poi varie storie e considerazioni, finché uno guarda l’orologio perché deve andare al tennis, un altro sbircia il telefonino e un altro ancora sussurra al vicino “ma quand’è che se magna?”.

Ricomincia il tran tran. E gli affanni. E l’ebbrezza di essere padroni della nostra vita. E le illusioni. Eppure il più grande “filosofo” di tutti i tempi chiamò “stolto” colui che riempiva il suo granaio illudendosi di poterne godere all’infinito: “stanotte stessa ti sarà chiesta la tua anima…”.

Perché un giorno tutti dovremo rispondere dei nostri atti e di come abbiamo speso il nostro tempo. In quanto la vita è un compito. Anche se ormai gli stessi preti parlano raramente dell’Inferno e del Paradiso a cui siamo destinati.

Pensiamo che inferno e paradiso siano da fuggire o cercare qui sulla terra. “Haiti, migliaia in fuga dall’inferno”, titolava ieri la prima pagina della “Stampa”. Altri giornali raccontavano i “paradisi tropicali” dei turisti a pochi passi dall’orrore haitiano.

Solo la Chiesa ci dice che c’è un Inferno ben peggiore di Haiti (ed eterno) da cui fuggire. E un Paradiso da raggiungere, di inimmaginabile bellezza e gioia, in cui tutte le lacrime saranno asciugate.

Il solo conforto oggi di fronte all’enormità del dolore di tutta quella povera gente e di fronte a tanti morti, è proprio questo: sperarli (e pregare per questo) fra le braccia del Padre, finalmente nella felicità certa, per sempre.

Ma noi, davanti alla nostra stessa morte (che è certa, inevitabile), che speranza abbiamo? Proviamo a rifletterci. Per me la sola speranza autentica è in Colui che ha avuto pietà della sorte umana, Colui che ha il potere vero e che ripagherà ogni sofferenza con un felicità senza fine e senza limiti.

Per questo la Chiesa c’è sempre, dentro ogni prova dell’umanità, dentro ogni “inferno” terreno com’è Haiti (provate a leggere le testimonianze accorate da là dei missionari). C’è per portare agli uomini la compassione di Dio, la sua carezza, il suo aiuto e soprattutto per aprire le porte del suo Regno.

“Ti sei chinato sulle nostre ferite e ci hai guarito” dice un prefazio della liturgia ambrosiana “donandoci una medicina più forte delle nostre piaghe, una misericordia più grande della nostra colpa. Così anche il peccato, in virtù del Tuo invincibile amore, è servito a elevarci alla vita divina”.

E la cosa grande che ci porta Gesù, il Salvatore degli uomini, non è solo questa, ma la resurrezione, la vittoria sulla morte, cosicché nulla di ciò che abbiamo amato andrà perduto.

Diceva don Giussani: “Cristo risorto è la vittoria di Dio sul mondo. La sua risurrezione dalla morte è il grido che Egli vuole far risentire nell’animo di ognuno di noi: la positività dell’essere delle cose, quella ragionevolezza ultima per cui ciò che nasce non nasce per essere distrutto. ‘Tutto questo è assicurato, te lo assicuro, Io sono risorto per renderti sicuro che tutto quello che è in te, e con te è nato, non perirà’ ”.

Come si fa allora a non gioire, anche nelle lacrime? Come si fa a non affidarsi – anche nella tragedia – all’unico che salva?

Voglio dirlo con le parole di san Gregorio Nazianzeno: “Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita”.

Antonio Socci

martedì 19 gennaio 2010

Intervento al post sulla tutela della vita

Riferendomi al post precedente, ecco a voi un intervento  significativo  dell'amica  Luisella che ringrazio per la sua importante testimonianza.

Luisella ha detto...
Comprendo pienamente il dolore e la difficoltà di quei genitori che si sono rivolti ad un Tribunale, ma non condivido la scelta. Anche io sono madre (a 31 anni) di un bimbo SPECIALE, morto a 5 mesi e mezzo di VITA per una gravissima patologia genetica (1 caso su 200.000) e nonostante il dolore sconvolgente che questo lutto ha provocato non riuscirei a scegliermi un figlio...E devo dire grazie proprio al mio piccolino per questo, perchè scegliere di avere un figlio sano sarebbe un pò come rinnegare quella vita che lui ha vissuto, seppur breve ma intensa e traboccante di amore, nonostane la sofferenza fisica.

Un figlio è DONO, assolutamente, e proprio per questo a mio parere va accettato così com'è, senza limitazione di nessuna sorta. E per il futuro? Ecco qui entra in gioco la paura...cosa fare? Intanto prendersi il tempo giusto per riflettere, fermarsi, elaborare il lutto come nel nostro caso, tornare a guardare quegli occhi che hanno DONATO amore a chiunque li ha incontrati e da lì ripartire.
Luisella

Testimonianza davvero commovente! Come si può rimanere indifferenti di fronte a tanto dolore ma anche a tanto AMORE? Noi siamo stati creati per l'AMORE, per donare AMORE a tutti, in modo incondizionato...Come si fa a decidere che tipo di figlio/a amare? Come dice Luisella, un figlio è un DONO da accettare così com'è... perché il Buon Dio accetta ognuno di noi e ci ama così come siamo. E noi siamo tutti PERSONE con una dignità che nessun altro essere vivente ha.
 Grazie ancora a Luisella!

lunedì 18 gennaio 2010

Sulla tutela della vita

Mi è giunto questo articolo tramite l'editoriale samizdatonline che non posso non sottoporre alla vostra attenzione.
Leggete quanto segue.

Quando il desiderio diventa "diritto esigibile"

Non può passare sotto silenzio la sentenza della magistratura che ha, di fatto, annullato la legge 40 sulla tutela della vita. Alcuni giudici sembrano proprio voler ribaltare le leggi sulla cui applicazione dovrebbero invece vigilare; se non serve neanche approvare una legge e sostenerla in un referendum, cosa ci resta per difendere la vita? SamizdatOnLine

E adesso chi fermerà le tentazioni di scartare figli?

Assuntina Morresi - Avvenire

Il desiderio di dare un fratello a un figlio già nato, da una parte; la probabilità altissima che il bambino nasca destinato in breve a morire, dall’altra. E intanto un altro figlio morto pochi mesi dopo la nascita, e alcuni aborti volontari perché i nascituri avevano già la stessa, terribile malattia: l’atrofia muscolare spinale di tipo 1. Una storia di lutti e dolore, di fronte alla quale un giudice di Salerno ha deciso di applicare una legge che non c’è per sostenere la coppia nel desiderio di avere un secondo figlio che non avesse ereditato la stessa patologia.

Una legge che non c’è, dicevamo: perché per poter accedere alle tecniche di fecondazione assistita e selezionare l’embrione sano fra quelli malati, come consentito dal tribunale, secondo la legge italiana la coppia avrebbe dovuto essere sterile o infertile (a differenza di quella in questione) e la diagnosi preimpianto non sarebbe stata da vietare, come invece è adesso.

Una sentenza ipercreativa, insomma, che ha modificato impunemente in un sol colpo il risultato di un voto parlamentare raggiunto dopo anni di lavoro e quello di un referendum: tale è la potenza dei giudici, a quanto pare, e ci chiediamo che senso abbia il lavoro paziente nelle aule di Camera e Senato quando la solerzia e la fantasia di un magistrato riescono così velocemente a sostituirsi al potere legislativo e pure alla Corte Costituzionale che, eventualmente, sarebbe stata l’unica legittimata a pronunciarsi.

La legge 40, che la sentenza di Salerno ha violato, non consente la scelta dell’embrione su base genetica, perché ogni selezione di questo tipo è eugenetica, indipendentemente dalle motivazioni che possono essere addotte. Una volta ammessa infatti la possibilità di produrre un certo numero di embrioni per selezionarne alcuni e scartarne altri, come avviene con la diagnosi preimpianto, chi decide quali sono le malattie gravissime che legittimerebbero la scelta e quelle che invece sono considerate accettabili? Fra le decine di embrioni che si dovranno generare per essere sicuri di ottenerne qualcuno sano non si cercheranno anche altre patologie, oltre a quelle mortali? In altre parole: chi cerca il figlio sano, e vuole escludere terribili malattie come l’atrofia muscolare o la fibrosi cistica, accetterà il rischio di avere embrioni affetti da sindrome di Down o con certi tipi di patologie cardiache, ad esempio, o vorrà invece cercare pure quelli per scartarli, visto che c’è la possibilità? Chi decide l’elenco delle malattie da individuare? Chi fisserà il limite? E di quale tipo sarà?

In Gran Bretagna alcune associazioni di persone affette da sordità hanno condotto una lunga battaglia per poter impiantare anche embrioni con lo stesso handicap: «Quali embrioni debbano essere scelti per l’impianto deve rimanere una decisione degli individui e dei loro medici» hanno rivendicato, ritenendo che la condizione di sordità (che conoscono bene per esperienza diretta) sia semplicemente quella di una minoranza che vive in modo diverso dagli altri, e che va dunque difesa dalle discriminazioni.

Quando il desiderio – legittimo e comprensibilissimo – di avere un figlio diventa un diritto esigibile l’inevitabile passo successivo è un ulteriore diritto: quello ad avere un figlio sano (o con caratteristiche precise) e quindi di poterselo scegliere, con criteri sempre più discrezionali. Un figlio subordinato a una selezione genetica, un figlio 'a condizione': una contraddizione in termini, che dovrebbe far ripensare al significato, alla responsabilità e al valore di mettere al mondo un bambino. Se possibile, non a ogni costo.

Suggerisco uno spunto di riflessione:
Se non si parte dal concetto che un figlio è un " dono" e non un diritto, non si può riuscire a comprendere il motivo per cui la vita va accetta così come viene data: sana, malata, bella, brutta...Se non si parte dal concetto che ogni persona ha una sua dignità in quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio non si comprende il valore che ogni vita umana ha. O forse si tratta solo di una questione legata alla capacità che ognuno, considerato semplicemente individuo, ha di produrre? Ma se è così non siamo persone, ma macchine, cose,  usate finché funzionano, poi si buttano...e se arrivano dalla fabbrica già difettose, le rimandiamo indietro magari per  farci chissà quale esperimento!


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La legge 40 non c'é più - Il Foglio
Diritti solo ai perfetti - Non darmi ragione
Una sentenza contro la legge 40 - Avvenire
Legge 40: basta intromissioni dei giudici. No alla selezione eugenetica - Cultura Cattolica

domenica 17 gennaio 2010

Sant'Antonio Abate


In questo giorno ricorre la festa di Sant'Antonio Abate.
Riporto alcune informazioni sulla sua vita di grande testimone del Vangelo di Gesù Cristo.

Il più grande rappresentante del monachesimo delle origini fu Sant’Antonio abate detto Antonio il grande e gli venne conferito il titolo di “Padre dei monaci”.

Sant’Antonio è considerato l’iniziatore del monachesimo cristiano e il primo degli Abati. A lui si deve la costituzione in forma permanente di famiglie di monaci che, sotto la guida del padre spirituale, ABBA’, si consacravano al servizio di Dio. La sua vita ci è stata tramandata dal suo discepolo sant’Atanasio, vescovo di Alessandria, che ha scritto l’opera “Vita Antoni” e ha lottato con lui contro l’eresia ariana. In questa opera è importante la descrizione della lotta di Antonio contro le tentazioni del demonio.

Antonio nacque a Coma in Egitto nel 251 ed era  figlio di agiati agricoltori cristiani. Rimasto orfano prima dei vent’anni sentì ben presto di dover seguire l’esortazione evangelica “ Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri”. Così fece e poi seguì la vita solitaria che già altri anacoreti facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in preghiera, povertà e castità. Si racconta che Antonio ebbe una visione in cui un eremita come lui riempiva la giornata dividendo il tempo tra tra Preghiera e l’intreccio di una corda. da qui capì che, oltre la preghiera, ci si doveva dedicare ad un’attività concreta che divenne il famoso motto “Ora et labora”, della regola benedettina.

Antonio condusse una vita ritirata dove i frutti del suo lavoro gli servivano per procurarsi il cibo e per fare carità. In questi primi anni fu molto tentato dal demonio, preso da dubbi circa la validità della vita solitaria. Si ritirò ancora di più dal mondo e si chiuse in una tomba scavata nella roccia presso Coma. Qui venne aggredito e percorso da dal demonio e, trovato privo di sensi, venne raccolto da persone che lo trasportarono nella chiesa del villaggio dove si rimise. In seguito alle sue penitenze e privazioni per raggiungere una purificazione totale, si dedicò a curare i sofferenti operando guarigioni e liberazioni dal demonio. Presto si formò il gruppo dei seguaci di Antonio che si divise in due comunità: una ad oriente e l’altra ad occidente del fiume Nilo. Questi padri del deserto vivevano in grotte e anfratti, ma sempre sotto la guida di un eremita più anziano e con Antonio come guida spirituale. Antonio fece anche da sostenitore a favore dei cristiani perseguitati a causa dell’Imperatore Massimo Daia. In quell’ occasione Antonio conobbe il suo amico sant’Atanasio che scrisse una lettera all’imperatore Costantino per intercedere a suo favore. Restando in contatto con Atanasio e combattendo contro l’eresia ariana, Antonio visse gli ultimi anni della sua vita nel deserto di Tebaide dove pregando e coltivando un piccolo orto, morì ultracentenario il 17 gennaio 357.







sabato 16 gennaio 2010

Le nozze di Cana

Il Vangelo di domenica 17 gennaio 2010

Il commento della II Domenica del Tempo Ordinario è di Padre Gianmarco Paris

L'episodio delle 'Nozze di Cana' racchiude in sé una profonda simbologia perché esse sono il segno dell'alleanza, dell'amore, tra Dio e il suo popolo. Maria, che avvisa Gesù con il suo semplice "non hanno più vino" passa quasi inosservata, ma in verità Ella rappresenta il resto fedele d'Israele; i poveri, gli umili, quelli che sanno che Dio manterrà la promessa e salverà. Anche la battuta del maestro di tavola quasi non si nota, ma è la sottolineatura dell'avvenuto inizio della Nuova ed Eterna Alleanza sancita da Cristo. Il vino buono, quello di Gesù, servito quasi alla fine del banchetto è proprio simbolo dell'avvento del Salvatore e il manifestarsi della sua divinità. Quando il popolo ormai dispera, attendendo da secoli quanto promesso, Dio entra nella storia e cambia la vita di quanti credono il Lui.

Dal Vangelo secondo Giovanni
Gv 2,1-12

In quel tempo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno più vino".
E Gesù rispose: "Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora". La madre dice ai servi: "Fate quello che vi dirà".
Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le giare"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora attingete e portatene al maestro di tavola". Ed essi gliene portarono. E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono".
Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Dopo questo fatto, discese a Cafarnao insieme con sua madre, i fratelli e i suoi discepoli e si fermarono là solo pochi giorni.

 COMMENTO  All'inizio e alla fine, una alleanza d'amore...Chi erano gli sposi? Come si chiamavano? Qual è la loro storia? Nulla ci dice Giovanni di tutto ciò. La sua attenzione (e la nostra) è attirata dal fatto che, a un certo punto della festa, il vino finisce, e perciò la festa rischia di fracassare. Sappiamo quasi a memoria come finisce la storia: è così straordinario il gesto di Gesù che trasforma l'acqua in vino che è diventato proverbiale.

LE NOZZE. Non è difficile comprendere che Gesù ha permesso che la festa di nozze non finisse malamente. Se le nozze racchiudono il prima e il dopo della vita e se il vino è simbolo della festa e della gioia, possiamo anche concludere che Gesù è venuto affinché non mancasse mai il vino delle nozze, non mancasse mai la gioia della vita, cioè la fiducia che la vita, pur con suoi limiti umani (fisici e psichici), è un dono gratuito, fatto per amore. Allargando lo sguardo al quadro più ampio del vangelo ci accorgiamo che Giovanni inserisce i primi episodi della vita di Gesù nell'arco temporale di una settimana. La festa delle nozze avviene nel sesto giorno, dopo che nei giorni precedenti aveva cominciato ad accogliere e chiamare accanto a sé alcuni discepoli. C'è un'altra storia nella Bibbia che comincia con i giorni di una settimana: è la creazione del mondo (Genesi 1). Il sesto giorno Dio ha creato l'uomo e la donna, benedicendoli nella loro unione e capacità di dare la vita. Non è troppo azzardato collegare queste due storie, visto che i primi cristiani avevano la chiara coscienza che Gesù aveva inaugurato il tempo ultimo (che dunque richiama e compie il primo). Con la venuta di Gesù è giunto il tempo delle nozze, si celebra definitivamente l'alleanza di amore tra Dio e l'umanità, di cui l'alleanza tra uomo e donna è dall'inizio delle creazione frutto e segno (nella prima lettura Isaia celebra la rinascita di Gerusalemme con i toni festosi delle nozze tra Dio e la città, tra il Creatore e le sue creature). Tutto il "vangelo", la buona notizia proclamata da Gesù, è contenuto in questo gesto inaugurale. Per questo Giovanni dice che in quell'occasione Gesù diede inizio ai segni e rivelò la sua gloria (la gloria di Gesù, che è la gloria di Dio, è rendere possibile la pienezza gioiosa della vita dell'uomo).

LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA. Forse qualcuno, durante l'ascolto attento, avrà notato una cosa un po' strana. All'osservazione di Maria (non hanno più vino) Gesù dapprima prende le distanze dalla madre e poi sembra voler negare il suo aiuto. Maria, come se avesse inteso altro, invita i servi ad obbedire a quello che Gesù ordinerà. Sembra quasi che Gesù abbia compiuto questo segno straordinario controvoglia, un po' forzato dalla madre. Guardando bene il quadro e tutta l'opera di Giovanni, non è certo questo il messaggio del primo segno. Gesù lo compie con tutta la sua volontà e coscienza. Tuttavia a Giovanni interessa far risuonare in questa prima pagina la frase di Gesù: "non è ancora giunta la mia ora" (che probabilmente dobbiamo intendere come una domanda del figlio alla madre, e a tutti noi lettori). L'effetto è di farci comprendere che quanto è avvenuto a Cana è solo l'inizio di qualcosa che non è ancora completo. Fin dalla prima pagina percepiamo che il racconto è incamminato verso un compimento, è attratto da una "conclusione" . Questa conclusione è rappresentata dalla morte e risurrezione di Gesù. L'alleanza di Dio con l'umanità si compie con il dono totale della sua vita. Durante l'ultimo saluto ai suoi discepoli, quelli che videro la sua gloria e credettero a Cana, il vino della festa e il sangue della morte sono una cosa sola. Alla croce Gesù chiama di nuovo Maria con il titolo di "donna", che nel suo dolore riceve un nuovo figlio nel discepolo che Gesù amava. La gioia della vita, minacciata di fracassare a causa della morte, sarà piena al momento del nuovo incontro con il Risorto. Perché l'amore è più forte della morte.

L'UNITA' DEI CRISTIANI. La seconda lettura si stacca un po' da questo filo meditativo, ma ci aiuta a riflettere e pregare secondo l'intenzione delle Chiese cristiane, che celebrano a partire da questa domenica, la settimana di preghiera per l'unità dei cristiani. San Paolo, a partire dalla sua esperienza di fede e dalla sua preoccupazione per l'annuncio del vangelo a tutti, ci ricorda che il cammino della comunione e dell'unità parte dalla Trinità e si sviluppa grazie all'azione dello Spirito, che suscita molteplici e diversi doni, che hanno la medesima origine e il medesimo obiettivo, quello di far crescere la comunità.



giovedì 14 gennaio 2010

Haiti


Editoriale samizdatonline,

articolo di Davide Rondoni Haiti: il dolore e il grido

E noi apriamo le nostre palme vuote

La tragedia di Haiti lascia senza fiato. Gigantesca. Più di quanto si immaginava. Il numero delle vittime imprecisato, si parla di decine e decine di migliaia. In una parte di un’isola già povera e provata da miseria e fatica di vivere, si è abbattuta una sventura che lascia attoniti. Come se a sventura si aggiungesse sventura in un baratro senza fondo. Haiti, nome esotico e di buia miseria. Nome di terra lontana. Di popolo provato e povero. E il fiato non si sa dove prenderlo. Se metti la faccia tra le mani, il respiro non torna.
E se anche ti volti da un’altra parte, il respiro non torna. E se ancora maledici i terremoti, non torna. Come non tornano le decine di migliaia di innocenti. I bambini e le donne. Come non tornano i sepolti vivi.
Un raddoppiamento di male. Di sventura. Un raddoppiamento di catastrofe. Una insistenza del dolore e della mancanza di fiato. Come se nessun "perché" gridato in faccia a nessuno e nemmeno gridato in faccia al cielo potesse esaurire lo sconforto, e la durezza che impietrisce davanti al disastro e alle immagini di disastro. Nessun "perché" rigirato nelle mani, nessuna domanda ricacciata in gola, può esaurire l’inquietudine. Una doppia ingiustizia. Una moltiplicata sventura. Anche il cuore più sordo sente il grido di questa sventura. Anche il cuore più duro si crepa davanti alla morte che domina così apertamente, così sfacciatamente. Anche l’anima che non sospira mai, sente il fiato che si tira. Il fiato che non arriva. Il fiato che si rompe.
Quasi non si arriva nemmeno alla domanda, lecita, urgente di cosa si può fare, di fronte a questa tragedia. Quasi non si arriva a formulare nessuna domanda su cosa fare, perché si rimane inchiodati a una domanda più forte, più radicale: cosa possiamo essere? Sì, insomma, cosa si è, cosa è essere uomini davanti a questi eventi? Perché sembra quasi che ogni forza nostra, ogni umana dignità siano annullate. Radiate. Come se esser uomini davanti a tali tragedie sia quasi una cosa grottesca. Tappi di sughero nel mare in tempesta. Formiche in balìa della strage, come diceva Leopardi di fronte al Vesuvio sterminatore.
Da dove riprendere fiato, umanità, dignità davanti a tale strage? Non c’è altra possibilità: davanti a questo genere di cose, o si prega o si maledice Dio. O si è credenti o si diventa contro Dio. Una delle due. E se il cristiano dice di esser quello che prega, invece di esser l’uomo che maledice, non lo fa per sentimentalismo. Non lo fa per comodità. Anzi, è più scomodo. Molto più scomodo. Ma più vero. Perché quando il mistero della vita sovrasta – nella sventura come nelle grandi gioie – è più vero aprire le palme vuote, o piene di calcinacci o di sangue dei fratelli e dire: tienili nelle tue braccia. Tienili nel Tuo cuore. Perché noi non riusciamo a conservare nemmeno ciò che amiamo. Perché la vita è più grande di noi, ci eccede da ogni parte, e la morte è un momento di eccedenza della vita. Un momento in cui la vita tocca fisicamente il suo mistero.
La natura non è Dio. In natura esistono anche i disastri. Come gli spettacoli e gli incanti. Ma la natura non è Dio. Non preghiamo la natura, che ha pregi e difetti, come ogni creatura. Preghiamo Dio creatore di abbracciare il destino delle vittime. Il destino triste di questi fratelli. Che valgono per Lui come il più ricco re morto anziano e sereno nel proprio letto. Che ci ricordano, nel loro dolore, che non siamo padroni del destino.

Propongo solo una riflessione: questi eventi portano sempre ad interrogarci sul perché essi avvengano e la risposta in genere non la riceviamo. Proviamo invece a non farci domande e a pensare  che  ognuno di noi potrebbe trovarsi nella situazione dei  fratelli di Haiti. Come sarebbe il nostro incontro con il Signore?
Uniamoci in preghiera!

lunedì 11 gennaio 2010

Il bisogno che abbiamo

Cari amici lettori, lo stile di vita che la mentalità di questo secolo ci porta a vivere, spesso provoca nel nostro cuore dei grandi vuoti che non riusciamo a colmare in nessun modo e ai quali non sappiamo dare un senso. Ci sentiamo affetti da una sorta di malttia spirituale di cui non conosciamo la causa, tanto meno la cura perché non conosciamo il medico giusto che ce la può proporre. E allora rimaniamo dei malati senza speranza a cui né la scienza, né il progresso possono porre rimedio. Ma di cosa abbiamo veramente bisogno? L'articolo che riporto di seguito lo dice molto chiaramente.


Lo aveva già detto Péguy che il mondo moderno, “laico, positivista e ateo, democratico, politico e parlamentare”, con la sua scienza e i suoi metodi moderni, credeva di essersi sbarazzato di Dio. “Mangiatori di buon Dio”, scriveva, è la formula popolare dei nostri demagoghi anticattolici che “hanno assorbito molto più di buoni Dei e di cattivi Dei di quanto non credano”. E noi post moderni? Ciò che rende grave la nostra condizione è l’insinuarsi nel cuore di questo modernismo intellettuale. È come il penetrare di una scheggia appuntita, sottile e acuminata che si nasconde tra le pieghe della pelle. Talvolta non si avverte neppure subito il dolore. Scoppia improvviso e costringe a fermarsi. Ma è proprio qui che si apre la possibilità di scoprire ciò che ci ha invaso, come un corpo estraneo, ingombrante, pesante come un macigno. È una strada in salita. Ma è la strada della salvezza. Scoprire il bisogno che abbiamo, da cui siamo costituiti, tanto che senza di quello non ci riconosciamo più, non sappiamo dire più niente di noi. Il volto umano è segnato da una domanda, appassionata e incuriosita di fronte al reale e poi di fronte a se stessi. Chi sono? Dove sto andando? Il modernismo del cuore è l’antidomanda, l’antistupore, il già saputo; quindi la povertà del pensiero, della ragione e della creatività che non trovano l’alimento necessario alla vita. All’inizio di un nuovo anno il primo, sentito augurio è che prendiamo coscienza del bisogno che siamo. È l’Epifania del Signore, la Sua manifestazione come la Verità che s’irraggia sul mondo, ad aprire l’anno. La luce della stella si offre a tutti come traccia da seguire per scoprire la risposta che il cuore, libero dall’ingombro della presunzione, cerca. Se siamo domanda è perché c’è una risposta. È la ragione che lo esige. Cosa si oppone a questa evidenza della ragione? La mancanza “di umiltà autentica e di coraggio autentico, che porta a credere a ciò che è veramente grande, anche se si manifesta in un Bambino inerme.” Lo ha ricordato il Papa celebrando la festa dell’Epifania e rileggendo il percorso dei Magi, “uomini di scienza in un senso ampio, che non si sono vergognati di chiedere istruzioni ai capi religiosi dei Giudei”. Essi non hanno evitato, secondo la nostra mentalità odierna, ogni “contaminazione” tra la Scienza e la Parola di Dio. Così hanno sperimentato l’armonia tra la ricerca umana, che li portava a scrutare gli astri e a conoscere la storia dei popoli, e la Parola di Dio. Hanno raggiunto la vera sapienza, quella che si “apre al Mistero che si manifesta in maniera sorprendente” e testimonia “l’unità tra l’intelligenza e la fede. Il nuovo anno ci trovi “autentici ricercatori della verità di Dio, capaci di vivere sempre la profonda sintonia che c’è tra ragione e fede, scienza e rivelazione”.

Fonte: CulturaCattolica.it domenica 10 gennaio 2010

sabato 9 gennaio 2010

Battesimo del Signore

Il Vangelo di domenica 10 gennaio 2010

La proposta di salvezza e di santità che Gesù fa nel suo vangelo è in verità un cammino arduo nel senso che richiede il distacco dalle mode dei tempi, dalle "leggi" del gruppo o della categoria se queste sono anti-vita, anti-umanità sana. Non si può pensare di essere cristiani solo perché la domenica si va a messa per tradizione a sfoggiare il vestitino nuovo o a farsi vedere per racimolare qualche voto quando ci sono le elezioni. Essere cristiani significa avere il coraggio di scegliere che cosa si vuole fare della propria esistenza e se la meta è la polvere o la luce. Predicava San Cromazio di Aquileia ( ? - 407), vescovo: "...Quindi al battesimo del Signore i cieli si sono aperti affinché, per il lavacro della nuova nascita, scoprissimo che i regni dei cieli sono aperti ai credenti, secondo questa parola del Signore: "Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio"(Gv 3,5). È dunque entrato, colui che rinasce e non ha trascurato di preservare il suo battesimo...".

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 3,15-16.21-22
"In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: "Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco".
Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: "Tu sei il mio Figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto".

IL COMMENTO DI DON ROBERTO SEREGNI.

La voce e la colomba. Poche settimane fa la liturgia ci ha fatto meditare sulla famiglia di Nazareth. Ci siamo lasciati stupire dal silenzio di quei trent'anni, dalla quotidiana normalità, dal lavoro in bottega, dal silenzio dei Vangeli sulla casa di Giuseppe e Maria. Insomma: Gesù ha avuto trent'anni di silenzio e di interiorizzazione per decidere come rivelarsi alle folle e oggi la liturgia ci fa rivivere questa prima rivelazione di Gesù.
L'AGIRE DI GESU'. Attenzione: da dove parte la missione Gesù? Chi sono i prescelti per raccogliere le primizie della sua manifestazione? Qual è la scelta programmatica da cui iniziare l'annuncio della salvezza? Bellissimo: Gesù si mette in fila con i peccatori senza corsia preferenziale. In silenzio. Uno tra di loro. Dio tra gli uomini. L'evangelista Luca lega tre eventi dell'inizio della vita pubblica di Gesù: il battesimo, la tentazione e il discorso programmatico nella sinagoga di Nazareth. Intrecciati dal tema dello Spirito Santo, manifestano quelle costanti fondamentali per intuire la persona di Gesù e la direzione della sua missione. Un primo aspetto è senza dubbio quello della solidarietà di Gesù con il suo popolo. Una scelta fondamentale alla quale rimarrà fedele per tutta la sua vita e che lo porterà sulla Croce: in fila con i peccatori al Giordano, crocifisso in mezzo a loro sul Calvario. E' meravigliosa questa solidarietà di Gesù con il suo popolo, con gli ultimi, con gli scartati. La discesa dello Spirito e la Parola del Padre rivelano un compiacimento trinitario sulla missione del Figlio. La voce e la colomba rivelano l'identità di Gesù, svelano che quell'uomo in fila con i peccatori davanti al Battista è la trascrizione storica del Volto di Dio. Un secondo aspetto da sottolineare è l'attenta annotazione di Luca "mentre stava in preghiera" (v.21). Tutti i momenti più importanti della vita di Gesù sono segnati dalla preghiera. C'è una costante, c'è uno spazio e un tempo che aprono la sua vita ad una relazione incandescente con il Padre nel dono dello Spirito. E' un ritmo che da freschezza alla storia, è una appartenenza feconda che Gesù inscrive in tutti i passaggi più importanti nella rivelazione del Volto del Padre.
IL NOSTRO AGIRE. E tu, cercatore di Dio, quale tempo e quale spazio della tua giornata dedichi all'intimità con il Padre, all'ascolto della Parola, all'invocazione dello Spirito? Lascia che la preghiera sia l'innesto della Sua presenza nel tuo quotidiano, sia la bussola per orientare la tua ricerca del Suo Volto. Non affannarti a scovarlo tra le nubi del cielo o negli avvenimenti sensazionali del marketing religioso. Cercalo dove Lui ha scelto di lasciarsi incontrare. Cercalo nella Parola spezzata e condivisa con la tua comunità, nel sorriso dell'anziano a cui porti la sua ministra preferita, in tuo papà che ad ogni costo ti vuole vedere laureato, nei giovani a cui annunci senza stancarti la Parola di vita, in quel professore che proprio non ti capisce, nell'amico che ti pugnala alle spalle con il tuo segreto più intimo, nella fatica di scegliere, in quella ferita che ancora fa male. Buona settimana.