venerdì 31 luglio 2009

Ru486



Contro la Ru486, la pillola che uccide!

La foto qui riportata parla da sé !


L'uomo è diventato incline a trattare i suoi simili come cose che cadono sotto la categoria dell'utilità (Romano Guardini)

mercoledì 29 luglio 2009

L'ATTO DI ABBANDONO


(Contro le ansie e le afflizioni)

Don Dolindo Ruotolo, sacerdote napoletano vissuto e morto in concetto di santità, ha scritto questo insegnamento sull’abbandono in Dio ispiratogli da Gesù stesso.

“Perché vi confondete agitandovi? Lasciate a me la cura delle vostre cose e tutto si calmerà. Vi dico in verità che ogni atto di vero, cieco, completo abbandono in me, produce l’effetto che desiderate e risolve le situazioni spinose. Abbandonarsi a me non significa arrovellarsi, sconvolgersi e disperarsi, volgendo poi a me una preghiera agitata perché io segua voi a cambiare così l’agitazione in preghiera. Abbandonarsi significa chiudere placidamente gli occhi dell’anima, stornare il pensiero della tribolazione e rimettersi a me perché io solo vi faccia trovare, come bimbi addormentati nelle braccia materne, all’altra riva.
Quello che vi sconvolge e vi fa un male immenso è il vostro ragionamento, il vostro pensiero, il vostro assillo e il volere ad ogni costo provvedere voi a ciò che vi affligge.
Quante cose io opero quando l’anima, nelle sue necessità spirituali e in quelle materiali si volge a me, mi guarda, e dicendomi “PENSACI TU” chiude gli occhi e riposa!
Avete poche grazie quando vi assillate per produrle; ne avete moltissime quando in preghiera è un affidamento pieno a me. Voi nel dolore pregate perché lo tolga, ma perché lo tolga come voi credete……. Vi rivolgete a me, ma volete che io mi adatti alle vostre idee; non siete infermi che domandano al medico la cura, ma che gliela suggeriscono. Non fate così, ma pregate come vi ho insegnato nel Pater: “SIA SANTIFICATO IL TUO NOME”, cioè sii glorificato in questa mia necessità – “VENGA IL TUO REGNO”, cioè tutto concorra al Tuo regno in noi e nel mondo – “SIA FATTA LA TUA VOLONTA’”, ossia pensaci Tu. Io intervengo con tutta la mia onnipotenza e risolvo le situazioni più chiuse. Ecco, tu vedi che il malanno incalza invece di decadere? Non ti agitare, chiudi gli occhi e dimmi con fiducia: “Sia fatta la tua volontà, pensaci Tu”. Ti dico che io ci penso, e che intervengo come medico, e compio anche un miracolo quando occorre. Tu vedi che l’infermo peggiora? Non ti sconvolgere, ma chiudi gli occhi e dì:"PENSACI TU".Ti dico che io ci penso.
E’ contro l’abbandono la preoccupazione, l’agitazione e il voler pensare alle conseguenze di un fatto. E’ come la confusione dei fanciulli quando pretendono che la mamma pensi alle loro necessità, e vogliono pensarci loro, intralciando con le loro idee e i loro capricci infantili il suo lavoro.
Chiudete gli occhi e lasciatevi portare dalla corrente della mia grazia, chiudete gli occhi e lasciatemi lavorare, chiudete gli occhi e non pensate al momento presente, stornate il pensiero dal futuro come da una tentazione. Riposate in me credendo alla mia bontà, vi giuro per il mio amore che, dicendomi con queste disposizioni: “PENSACI TU”, io ci penso in pieno, vi consolo, vi libero, vi conduco. E quando debbo portarvi in una via diversa da quella che vedete voi, io vi addestro, vi porto nelle mie braccia, poiché non c’è medicina più potente di un mio intervento di amore. Ci penso solo quando chiudete gli occhi. Voi siete insonni,voi volete tutto valutare, tutto scrutare, tutto pensare e vi abbandonate così alle forze umane o peggio agli uomini, confidando nel loro intervento. E’ questo che intralcia le mie parole e le mie vedute. Oh, come io desidero da voi questo abbandono per beneficarvi e come mi accoro nel vedervi agitati!
Satana tende proprio a questo: ad agitarvi per sottrarvi alla mia azione, gettarvi in preda alle iniziative umane. Confidate perciò in me solo, riposate in me, abbandonatevi in me in tutto. Io faccio miracoli in proporzione del pieno abbandono in me, e del nessuno affidamento in voi: io spargo tesori di grazie quando voi siete nella piena povertà!
Se avete vostre risorse, anche in poco, o se le cercate siete nel campo naturale, seguite quindi il percorso naturale delle cose che è spesso intralciato da Satana.
Nessun ragionatore o ponderatore ha fatto miracoli, neppure fra i Santi.
Opera divinamente chi si abbandona a Dio. Quando vedi che le cose si complicano, dì con gli occhi dell’anima chiusi: ”GESU’ PENSACI TU”. E distraiti, perché la tua mente è acuta…. Per te è difficile vedere il male.
Confidare in me spesso, distraendoti da te stesso. Fa così per tutte le tue necessità. Fate così tutti, e vedrete grandi, continui e silenziosi miracoli. Ve lo giuro per il mio amore. Io ci penserò, ve lo assicuro.
Pregate sempre con questa disposizione di abbandono, e ne avrete grande pace e grande frutto, anche quando vi faccio la grazia dell’immolazione, di riparazione e di amore che impone la sofferenza. Ti sembra impossibile? Chiudi gli occhi e dì con tutta l’anima “GESU’ PENSACI TU”. Non temere ci penso io. E tu benedirai il tuo nome umiliando te stesso. Le tue preghiere non valgono un patto di fiducioso abbandono; ricordatelo bene. Non c’è novena più efficace di questa:
“O GESU’ MI ABBANDONO IN TE, PENSACI TU”
“ABBANDONATI AL MIO CUORE ……E VEDRAI”
Voglio che tu creda nella mia onnipotenza e non nella tua azione: che tu cerchi di mettere in azione Me, non te negli altri.
Tu cerca la mia intimità, esaudisci il mio desiderio di averti, di arricchirti, di amarti come voglio. Lasciati andare, lasciami riposare in te, lasciami sfogare su di te continuamente la mia onnipotenza. Se tu rimarrai vicino a me e non ti preoccuperai di fare per conto tuo, di correre per uscire, per dire di aver fatto, mi dimostrerai che credi nella mia onnipotenza e io lavorerò intensamente con te quando parlerai, andrai, lavorerai, starai in preghiera o dormirai. Perché “ai miei diletti dò il necessario anche nel sonno” (salmo 126). Se starai con Me senza voler correre, né preoccuparti di cosa alcuna per te, ma la rimetterai con totale fiducia a Me Io ti darò tutto quello che ti necessita, secondo il mio disegno eterno.
Ti darò i sentimenti che voglio da te, ti darò una grande compassione verso il tuo prossimo e ti farò dire e fare quello che Io vorrò. Allora la tua azione verrà dal mio Amore. Io solo, non tu con tutta la tua attività, potrò fare dei figli nuovi, che nascono da Me. Io ne farò tanti di più quanto più tu vorrai essere un vero figlio quanto il mio Unigenito, perché lo sai che “ se farai la Mia Volontà mi sarai fratello, sorella e madre” per generarmi negli altri, perché io produrrò nuovi figli servendomi di veri figli.
Quello che tu farai per riuscire è tutto fumo in confronto a quello che faccio Io nel segreto dei cuori per quelli che amano. “Rimanete nel Mio Amore…… se rimarrete in Me e rimangono in voi la mie parole, chiedete quello che volete e vi sarà dato” (Gv. 15)”.

Da: “Fui chiamato Dolindo, che significa dolore”. Autobiografia del sac.Dolindo Ruotolo, (1882-1970) terziario francescano, traslato e sepolto nella parrocchia dell’Immacolata di Lourdes e S. Giusepp dei Vecchi a Napoli.

Tipolitografia Gamba www.gambedit.com

Il "Padre Nostro" di San Francesco


COME IN CIELO COSI' IN TERRA

Sia fatta la tua volontà

come in cielo, così in terra;

affinché ti amiamo con tutto il cuore,

pensando sempre a te;

con tutta l'anima, desiderandoti sempre;

con tutta la mente,

dirigendo a te tutte le nostre intenzioni,

e cercando in tutte le cose I'onor tuo;

e con tutte le nostre forze,

impiegando tutte le potenze dell'anima

e i sentimenti del corpo

in ossequio del tuo amore,

e non in altro.

Sia fatta la tua volontà

come in cielo, così in terra;

affinché amiamo altresì i nostri prossimi,

come noi stessi, traendo tutti,

giusta le nostre forze, al tuo amore,

godendo dei beni e avendo compassione

dei mali altrui, come dei nostri,

e non recando a chicchessia

offesa alcuna.

S. Francesco d' Assisi

lunedì 27 luglio 2009

La Bibbia fa paura?






Propongo un articolo del maggio 2008 su un'indagine svolta dall' EURISKO sulla conoscenza della Sacra Bibbia, condotta anche nella nostra Italia.

L'articolo è di Eric Noffke, un pastore della Chiesa evangelica valdese, che ho ritenuto significativo anche per noi cattolici.

È significativo e nuovo che anche la chiesa cattolica abbia commissionato un'indagine sulla conoscenza della Bibbia in alcuni paesi occidentali (condotta dalla GFK-Eurisko), tra cui l'Italia. Come già tre anni fa aveva evidenziato una ricerca simile, commissionata questa volta dalla Tavola valdese, anche qui appare chiaro che gli italiani non conoscono il testo sacro del cristianesimo. I dati presentati fanno riflettere.

Il primo elemento da evidenziare, a mio parere, è che l'indagine è stata commissionata dalla Federazione biblica cattolica in vista del Sinodo dei vescovi italiani. Il fatto stesso e, direi soprattutto la circostanza, potrebbero costituire un segnale finalmente positivo per il dialogo ecumenico in un tempo segnato da una generale chiusura delle gerarchie vaticane al mondo protestante. La Bibbia è un terreno comune tra le chiese e le due persone che hanno sostenuto questa ricerca lo sanno bene: si tratta di Gianfranco Ravasi e di Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio della cultura il primo, vescovo di Terni e anche presidente della Federazione biblica cattolica il secondo. Loro la Bibbia la conoscono e sanno che su di essa è possibile trovare uno spazio di incontro veramente ecumenico.

A livello generale, i risultati dell'indagine Eurisko suscitano alcune riflessioni. Il dato incoraggiante è che il 75% dei nostri concittadini possiede una Bibbia, fatto molto positivo e per nulla scontato, vista l'eredità storica italiana... Il dato deprimente è che, apparentemente, questo libro rimane a prendere polvere sullo scaffale: solo il 27% dei nostri concittadini la legge, almeno occasionalmente, e la percentuale scende al 14% quando si verifica se di essa si abbia una conoscenza anche minima. Evidentemente, invece di parlare tanto di radici cristiane dell'Europa, si dovrebbe spendere qualche energia in più per migliorare la qualità del cristianesimo attuale.

Un altro dato importante tra quelli rilevati è che il 62% degli interpellati in Italia è favorevole all'insegnamento della Bibbia nella scuola. L'idea è ottima, ma non è certo nuova: l'associazione laica Biblia, che si prefigge appunto la diffusione della conoscenza delle Scritture cristiane, da anni ha lanciato questo progetto. Viene da chiedersi se davvero la Bibbia entrerà nei programmi di studio della scuola pubblica. Francamente non lo credo, e per una ragione fondamentale: la Bibbia fa paura, Omero no. Non per nulla essa è vietata ancora in diversi paesi del mondo. Fa paura, perché nella Bibbia parla la voce del Dio vivente. Fa paura perché può cambiare la vita di uomini e donne. Fa paura, perché la Bibbia non può essere controllata e resta lì, a metterci costantemente in questione. E non sono solo i poteri "di questo mondo" a temerla: le chiese stesse sono le prime ad averne paura o ad essere messe in imbarazzo da questo libro, che le esamina e le chiama a rendere conto della loro fedeltà all'evangelo.

Se davvero si riuscisse a portare la Bibbia nelle scuole (chi sia a portarla non fa differenza, perché la Bibbia si sa difendere da sola!), si sarebbe fatto un gran passo in avanti. Il fatto che la chiesa cattolica abbia commissionato e pubblicizzato questa indagine, dando spunto ad una riflessione pubblica sul tema "Bibbia" è un segnale positivo. Per il momento, però, resta l'impressione di avere ancora molto, molto lavoro da fare. Speriamo di farlo sempre più insieme, tra cristiani.

Festa di tutti i nonni

Domenica 27 luglio la Chiesa ha ricordato i Santi Gioacchino ed Anna, genitori di Maria e nonni di Gesù.
Riporto un articolo tratto dal quotidiano "Avvenire" sul discorso del Papa all'Angelus a Les Combes:
«I nonni importanti nell'educazione»

L'importanza dell'educazione nell'attività della Chiesa e una sottolineatura del ruolo dei nonni nella formazione delle nuove generazioni. In occasione della memoria dei santi Gioacchino e Anna, il Papa ha lanciato questi messaggi nel corso dell'angelus a Les Combes, la località valdostana dove sta trascorrendo alcuni giorni di vacanza.

«Questa ricorrenza – ha osservato il Papa - fa pensare al tema dell’educazione, che ha un posto tanto importante nella pastorale della Chiesa». In particolare, ha aggiunto il pontefice, «ci invita a pregare per i nonni, che nella famiglia sono i depositari e spesso i testimoni dei valori fondamentali della vita». Secondo Benedetto XVI, «il compito educativo dei nonni è sempre molto importante, e ancora di più lo diventa quando, per diverse ragioni, i genitori non sono in grado di assicurare un’adeguata presenza accanto ai figli, nell’età della crescita. Affido alla protezione di sant’Anna e san Gioacchino tutti i nonni del mondo, indirizzando ad essi una speciale benedizione».

«La Vergine Maria, che, secondo una bella iconografia, imparò a leggere le Sacre Scritture sulle ginocchia della madre Anna, li aiuti ad alimentare sempre la fede e la speranza alle fonti della Parola di Dio», è stato l'auspicio di Benedetto XVI, prima di guidare la recita dell'Angelus.
Dopo la preghiera mariana, nei saluti finali il Papa ha rivolto il suo pensiero non solo ai nonni ma a tutti gli anziani, specialmente quelli che potrebbero trovarsi più soli e in difficoltà.

Molto significative per me le parole del Papa perché in esse rivedo i miei nonni che per la mia formazione cristiana sono stati fondamentali: è da loro che ho imparato a pregare... soprattutto con il rosario che puntualmente veniva recitato tutte le sere con vera devozione. I nonni hanno gettato in me le basi per quella fede che oggi ho avuto modo di approfondire grazie anche agli studi teologici che sto facendo. Ma mi hanno anche insegnato a vivererla questa fede in modo semplice e genuino.

Rientro dalle vacanze




Carissimi,

dopo una breve pausa vacanze, eccomi di nuovo tra di voi.
Scusate se me ne sono andata in silenzio ma avevo molto bisogno di riposare sia con la mente che con il corpo.
L'immagine che vedete mostra il luogo dove ho trascorso le vacanze, uno dei più belli della riviera marchigiana: Grottammare.


sabato 18 luglio 2009

Il Vangelo della Domenica

Dal vangelo secondo Marco (6,30-34) (domenica 19 luglio 2009)

In quel tempo gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato. Ed egli disse loro:" Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò". Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare. Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.
Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero. Sbarcando, Gesù vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose.
Commento
"Le vacanze di Gesù"

Siamo in piena stagione estiva ed anche il Vangelo ci parla di un tempo di ferie che Gesù concede ai suoi
Il Signore propone anche a noi di passare le vacanze con lui, nel silenzio, nel deserto, ci chiede di fidarci, di guardarlo negli occhi, perché lui è il pastore che si commuove della fatica delle pecore, il pastore che non vuole a tutti i costi venderci qualcosa.
Gesù propone ai suoi di andare in disparte, con lui, a riposare un po’…
La vacanza è il momento in cui andare in disparte e riposarsi un po’ con il Signore Gesù.
C’è il rischio di vedere la vacanza come un momento di euforia, di eccesso, di esteriorità.
Le vacanze, specie quelle che permettono viaggi lontani, sono sempre più diffuse ma sono davvero occasioni di rispetto e confronto con culture diverse? Di approfondimento della complessità dell’uomo?
Sappiamo cogliere la vacanza come un dono, come un momento di ascolto e di confronto con gli altri, uscendo dal nostro orizzonte e dai nostri giudizi per accogliere con dignità la vita di altri popoli?
Fate come Benedetto: mettete nella valigia un vangelo e un libro di spiritualità!
Abbiamo sempre pronta la scusa di non avere tempo da dedicare alla preghiera: perché non ricavarlo durante il tempo del riposo?
Il Signore ci invita a riposarci, ad andarcene in disparte certo, ma con lui, per ritrovare l’armonia tra il corpo e lo spirito che la frenesia del lavoro spesso interrompe.
Una seconda, consolante parola, per tutti gli altri.
Per quelli, la maggioranza (!), che non hanno, né avranno la possibilità di fare vacanza, specialmente per quelli che d’estate vivono ancora più soli: gli anziani, gli ammalati, le persone separate, chi è in difficoltà economica.
Il Signore guarda la folla e prova compassione, si commuove, perché, allora come oggi, noi uomini siamo come pecore senza pastore.
Animo, amici! Il Signore non si dimentica di noi, non ci lascia soli, diventa nostro pastore.
A questo Dio di tenerezza e di compassione sappiamo rivolgere il nostro sguardo e la nostra preghiera.
Paolo Curtaz

venerdì 17 luglio 2009

I migliori auguri a Sua Santità per una pronta guarigione


Vacanze all'insegna della sofferenza per il Santo Padre.

Proprio questa mattina, in val D'Aosta, nella sua camera da letto, Benedetto XVI scivolando, ha riportato una frattura scomposta al polso destro. Nonostante ciò, padre Lombardi ci informa che il Santo Padre ha regolarmente celebrato la Santa Messa e poi è stato accompagnato al pronto soccorso dove gli hanno immobilizzato il polso senza escludere la possibilità di dover intervenire chirurgicamente. Infatti, nel pomeriggio, il Papa è stato operato: il chirurgo assicura che l'intervento è andato bene e il Pontefice potrà tranquillamente tornare a suonare il piano, a scrivere e ad avere pieno possesso dei movimenti della mano destra.
Con questo mio scritto voglio esprimere al Santo Padre i miei migliori auguri per una pronta guarigione e tutto il mio affetto per quella guida così preziosa che egli è per tutti noi, pecorelle qualche volta smarrite, di cui abbiamo tanto bisogno perché nella sua persona noi vediamo Gesù che ci accompagna con amore all'incontro con il Padre celeste.
Invito tutti gli amici del blog a pregare per Benedetto XVI perché in questa situazione di sofferenza, anche se non grave, Egli possa sentirsi sostenuto dalle cure amorevoli di Maria e da tutti noi che gli vogliamo bene.
Grazie!




mercoledì 15 luglio 2009

Il Sacramento della Riconciliazione

Il caro amico Angel, nel suo ultimo post, ha pubblicato il messaggio della Vergine Regina degli ultimi tempi addolorata per le troppe persone che si accostano all'Eucarestia con indifferenza come se andassero a ricevere "carne da macello". Sono troppe anche le persone che fanno la Comunione senza sentire il bisogno di accostarsi periodicamente al sacramento della Riconciliazione usando il sistema "fai da te". San Paolo dice:" Chi mangia il corpo e il sangue di Cristo indegnamente, mangia la propria condanna" (1 Cor.11, 27-32).
Per ricevere Gesù è necessario essere in grazia di Dio, dono che si acquista con la confessione sacramentale.

La difficoltà che molta gente trova nel confessarsi è la paura di riconoscere le proprie colpe davanti al sacerdote che non viene visto come ministro di Dio, bensì come un qualunque essere umano al quale non si può andare a raccontare i fatti propri.


Detto ciò ,ritengo necessario proporre un insegnamento per far capire il senso del sacramento della Riconciliazione e il perché esso è stato affidato alla Chiesa.

La riflessione è offerta da Padre Lino Predon.

IL MINISTERO DELLA RICONCILIAZIONE È STATO AFFIDATO ALLA CHIESA
Il cristiano, essendo stato battezzato, non dovrebbe aver bisogno di un altro sacramento per il perdono dei peccati, ma, purtroppo, il cristianesimo pecca e, per fortuna, esiste il sacramento della riconciliazione. Durante i primi secoli la Chiesa accordava questo sacramento solo una volta in vita. Successivamente, preoccupata di perpetuare una misericordia che cerca la pecora matta ogni volta che si smarrisce, decise di dare l’assoluzione a ogni peccato grave, dopo che il peccatore avesse fatto penitenza dura e prolungata. Che dire delle nostre confessioni di oggi? Jacques Maritain scriveva: Credo che coloro i quali, molto a ragione ritenevano la confessione frequente una normale abitudine nella vita spirituale, avvertivano sempre più penosamente la discordanza tra l’idea che il peccato del mondo ha fatto morire Dio sulla croce e la stesura settimanale d’una lista di peccati correnti, sempre gli stessi, da dire senza saltarne nessuno, un po’ troppo somigliante alla lista della spesa, quando si va al mercato. Non sarebbe da augurarsi che tutti questi peccati, sempre gli stessi, divenissero oggetto di una formula di confessione recitata periodicamente dalla comunità, e seguita da un’assoluzione pubblica, riservando la confessione privata ai peccati che tormentano veramente l’anima del penitente? In una linea più tradizionale e teologica, che lascia al sacramento il suo carattere di avvenimento, padre Congar auspica per i peccati quotidiani di fragilità, i mezzi quotidiani di perdono... senza privarsi del beneficio di confessarli esplicitamente ogni tanto, riservando la penitenza particolare per i peccati più gravi, soprattutto per quelli che hanno un’incidenza sociale. Il 5 novembre 1970 i vescovi svizzeri prendevano questa posizione: La confessione personale non dovrebbe essere così frequente da farla scadere in un gesto abitudinario, ma non dovrebbe essere neppure così rara da perdere l’esercizio e il gusto del senso della propria responsabilità di fronte ai propri peccati. Si tratta dunque di trovare l’equilibrio, il giusto mezzo, tra il non uso e l’abuso del sacramento della riconciliazione. Si tratta di riscoprire, in ogni caso, la presenza di Cristo misericordioso che agisce e che salva: è Lui che assolve, è Lui che perdona. Papa Giovanni Paolo II, il 22 febbraio 1984 diceva: Mi preme, ora, sottolineare il compito della remissione dei peccati. Spesso, nell’esperienza dei fedeli, proprio il dover presentarsi al ministro del perdono costituisce una difficoltà rilevante. "Perché - si obietta - rivelare a un uomo come me la mia situazione più intima e anche le mie colpe più segrete?". "Perché - si obietta ancora - non rivolgermi direttamente a Dio o a Cristo, e dovere, invece, passare attraverso la mediazione di un uomo per ottenere il perdono dei miei peccati?". Queste e simili domande possono avere una loro plausibilità per la fatica che richiede un po’ sempre il sacramento della Penitenza. Esse, però, nel loro fondo, pongono in evidenza una non comprensione o una non accoglienza del mistero della Chiesa. È vero: l’uomo che assolve è un fratello che si confessa lui pure, perché nonostante l’impegno di santificazione personale, resta soggetto ai limiti dell’umana fragilità. L’uomo che assolve, tuttavia, non offre il perdono delle colpe in nome di doti umane peculiari di intelligenza, o di penetrazione psicologica, o di dolcezza e di affabilità; egli non offre il perdono delle colpe nemmeno in nome della propria santità. Egli, auspicabilmente, è sollecitato a divenire sempre più accogliente e capace di trasmettere la speranza che deriva da una totale appartenenza a Cristo (cfr. Gal 2,20; 1Pt 3,15). Ma quando alza la mano benedicente e pronuncia le parole dell’assoluzione, egli agisce in persona Christi: non solo come rappresentante, ma anche e soprattutto come strumento umano in cui è presente, in modo arcano e reale, e agisce il Signore Gesù, il Dio-con-noi, morto e risorto e vivente per la nostra salvezza. A ben considerare, nonostante il senso di disagio che può provocare la mediazione ecclesiale, essa è un metodo umanissimo, perché il Dio che ci libera dalle nostre colpe non si stemperi in una astrazione lontana, che alla fine diverrebbe una scialba, irritante e disperante immagine di noi stessi. Mediante la mediazione del ministro della Chiesa questo Dio si rende prossimo a noi nella concretezza di un cuore pure perdonato. In questa prospettiva vien fatto di domandarsi se la strumentalità della Chiesa, invece che contestata, non dovrebbe, piuttosto, essere desiderata, poiché risponde alle attese più profonde che si nascondono nell’animo umano quando si avvicina Dio e si lascia da Lui salvare. Il ministro del sacramento della Penitenza ci appare così - entro la totalità della Chiesa - come un’espressione singolare della logica dell’Incarnazione, mediante la quale il Verbo fatto carne ci raggiunge e ci libera dai nostri peccati. Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli, dice Cristo a Pietro. Le chiavi del regno dei cieli non sono affidate a Pietro e alla Chiesa perché se ne servano a proprio arbitrio o per manipolare le coscienze, ma perché le coscienze siano liberate nella Verità piena dell’uomo, che è Cristo, pace e misericordia (cfr. Gal 6,16) per tutti.

martedì 14 luglio 2009

Compagni di volo



Voglio ringraziarti, Signore per il dono della vita;
ho letto da qualche parte che gli uomini hanno un’ala soltanto:
possono volare solo rimanendo abbracciati.
A volte, nei momenti di confidenza, oso pensare,
Signore, che tu abbia un’ala soltanto, l’altra la tieni nascosta,
forse per farmi capire che tu non vuoi volare senza di me;
per questo mi hai dato la vita:
perché io fossi tuo compagno di volo.
Insegnami, allora, a librarmi con Te,.
Perché vivere non è trascinare la vita,
non è strapparla, non è rosicchiarla,
vivere è abbandonarsi come un gabbiano all’ebbrezza del vento.
Vivere è assaporare l’avventura della libertà.
Vivere è stendere l’ala, l’unica ala, con la fiducia
Di chi sa di avere nel volo un partner grande come Te.
Ma non basta saper volare con Te, Signore.
Tu mi hai dato il compito
Di abbracciare anche il fratello e aiutarlo a volare.
Ti chiedo perdono, perciò, per tutte le ali che non ho aiutato a distendersi.
Non farmi più passare indifferente vicino al fratello che è rimasto con l’ala ,
l’unica ala inesorabilmente impigliata
nella rete della miseria e della solitudine
e si è ormai persuaso di non essere più degno di volare con Te;
soprattutto per questo fratello sfortunato,
dammi, o Signore, un’ala di riserva.
Don Tonino Bello

domenica 12 luglio 2009

Il vangelo della domenica

Cari amici, pubblico ugualmente il Vangelo di questa domenica e relativo commento, anche se la giornata sta finendo, perchè desidero che la sua Parola vi accompagni per tutta la settimana.
Il commento è offerto da Mons. Angelo Sceppacerca.
Mc 6, 7-13
Gesù percoreva i villaggi , insegnando.
Allora chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Questo brano apre una nuova sezione del vangelo di Marco, chiamata “la sezione dei pani” e che porterà alla confessione di Pietro: “Tu sei il Cristo”. Si parla dei “dodici”, gli apostoli scelti da Gesù perché lo seguissero e stessero con lui. Ora Gesù li manda a predicare in povertà perché nel loro agire si possa mostrare la stessa potenza con cui Gesù compiva prodigi liberando dalla violenza e da ogni forma di schiavitù rappresentate dagli “spiriti immondi”. La missione degli apostoli, rivolta a persone nel bisogno, si svolge anch’essa in una radicale povertà di mezzi umani. Proprio come la vita di Gesù. L’assenza di bastone, sandali, bisaccia e pane sottolinea l’urgenza e la sollecitudine con cui bisogna vivere la missione: sarebbero bagagli e pesi inutili, ma soprattutto dicono che gli inviati ad annunciare il Vangelo devono essere “poveri” perché hanno “un solo pane”, che è Gesù. Non è il solo caso in cui i discepoli sono inviati due a due (Mc 6,7; Lc 10,1): Pietro e Giovanni vanno insieme in Samaria (At 8,14), Paolo e Barnaba partono per l’evangelizzazione nel vasto mondo pagano (At 13,2), Giuda e Sila sono inviati dal Concilio di Gerusalemme ad Antiochia (At 15,22). La ragione di queste missioni condivise è doppia: la validità della testimonianza secondo la norma «il tutto dovrà essere stabilito sulla parola di due o tre testimoni» (Dt 19,15); amore e aiuto reciproco secondo il detto sapienziale «meglio essere in due che uno solo, perché due hanno miglior compenso nella fatica. Se vengono a cadere, uno rialza l’altro» (Qo 4,9-10). La logica del vangelo continua a rovesciare quella umana secondo la quale dopo la vita viene la morte. La logica della fede nel Dio fedele, invece, dice che il successo segue il fallimento e che dopo la morte c’è la vita. E’ la logica della croce, la logica di Gesù e di quanti lo seguono. Per questo il vangelo di oggi è una pagina fondamentale per la chiesa che vuole essere fedele alla chiamata e alla missione affidatale dal Signore; è una pagina che richiama quella delle beatitudini. La povertà non è fine a se stessa; è beatitudine solo quando è segno della fede in Dio: è libertà da tutto – come “gli uccelli del cielo” e “i gigli del campo” – perché tutto si cerca e si riceve da Dio. L’avevano ben compreso Pietro e Giovanni quando compirono il primo miracolo, facendo rialzare e camminare uno storpio seduto fuori dalla porta del tempio: non hanno né oro né argento da dare, ma ben di più, il “nome” di Gesù, nel quale solo c’è salvezza. Oro e argento sarebbero stati un’elemosina; il nome di Gesù è liberazione e guarigione. Una missione con mezzi poveri? Nei secoli, tanti missionari lo hanno mostrato con la loro vita. Eppure il discorso della povertà è scomodo e mette a disagio, perché proprio non si concilia con la logica del mondo e delle cose. Per capire occorre un supplemento d’anima. A un frate da cerca che girava in furgoncino, don Milani rimbeccò che se un motore permette di arrivare prima e in più luoghi, non per questo è garanzia di fare maggior bene: “Se il prete è un imbecille, il motore farà arrivare prima e in più posti un imbecille… se invece è un santo prete (…) considererà massimo bene possedere la cattedra ineccepibile della povertà, unica cattedra da cui si potrebbe ancora dire al mondo sociale e politico qualche parola nostra in cui nessuno ci abbia preceduto, né ci potrebbe precedere”. Le parole di don Milani sono ruvide e scomode, ma hanno quel supplemento d’anima che ci aiuta un po’ a capire questo brano di Vangelo. I santi e i padri della Chiesa non sono meno espliciti sul fatto che la povertà non è fine a se stessa, ma alla condivisione, dei beni come pure della verità e della luce. Così san Giovanni Crisostomo: “Non obiettatemi che è impossibile interessarsi degli altri. Se siete cristiani, impossibile sarà semmai che voi non ve ne interessiate … la condivisione si radica nella natura stessa del cristiano. Non insultare Dio: se tu dicessi che il sole non può illuminare, lo insulteresti. E se ora ti metti a dire che il cristiano non può essere di vantaggio per gli altri, ebbene, tu non solo insulti Dio, ma lo fai pure passare per bugiardo. Guarda, è più facile che il sole non riscaldi e non brilli, che non che il cristiano cessi di dare la luce”. Inizia la predicazione del vangelo e Gesù punta subito su cose grandi: la povertà, la libertà, la verità... Una pagina che richiama molto da vicino quella delle beatitudini.

sabato 11 luglio 2009

San Benedetto da Norcia


In questo giorno la Chiesa ricorda San Benedetto da Norcia PADRE E PATRONO D'EUROPA.

Egli fu tanto unito a Gesù e al Padre nella preghiera e nel lavoro, da portare molto frutto per il regno di Dio in tutto il nostro continente. Per la sua sapienza e il suo amore, molti si unirono a lui lasciandosi guidare come figli spirituali e trovarono la vera vita in Gesù Cristo!

San Benedetto nasce a Norcia nel 480 d.C. La sua nobile famiglia lo manda a Roma per gli studi, che lui non completerà mai. Lo attrae così la vita monastica, ma i suoi progetti iniziali falliscono. Per certuni è un santo, ma c’è chi non lo capisce e lo combatte. La voce di Benedetto comincia a farsi sentire da Montecassino verso il 529. Ha creato un monastero con uomini in sintonia con lui, che rifanno vivibili quelle terre. Di anno in anno, ecco campi, frutteti, orti, il laboratorio... Qui si comincia a rinnovare il mondo: qui diventano uguali e fratelli “latini” e “barbari”, ex pagani ed ex ariani, antichi schiavi e antichi padroni di schiavi. Ora tutti sono una cosa sola, stessa legge, stessi diritti, stesso rispetto. Qui finisce l’antichità, per mano di Benedetto. Il suo monachesimo non fugge il mondo. Serve Dio e il mondo nella preghiera e nel lavoro. Irradia esempi tutt’intorno con il suo ordinamento interno fondato sui tre punti: la stabilità, per cui nei suoi cenobi si entra per restarci; il rispetto dell’orario (preghiera, lavoro, riposo), col quale Benedetto rivaluta il tempo come un bene da non sperperare mai. Lo spirito di fraternità, infine, incoraggia e rasserena l’ubbidienza: c’è l’autorità dell’abate, ma Benedetto, con la sua profonda conoscenza dell’uomo, insegna a esercitarla "con voce grande e dolce". Il fondatore ha dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. C’erano già tanti monasteri in Europa prima di lui. Ma con lui il monachesimo-rifugio diventerà monachesimo-azione. La sua Regola non rimane italiana: è subito europea, perché si adatta a tutti.

San Benedetto è stato proclamato dal papa Paolo VI nel 1964 Patrono di tutta l’Europa. Giovanni Paolo II ha aggiunto, nel 1980, i santi Cirillo e Metodio (apostoli degli Slavi). E siccome il contributo alla costruzione dell’Europa non è solo degli uomini, lo stesso papa saggiamente ha aggiunto nel 1999 tre sante come co-patrone dell’Europa: Santa Caterina da Siena, Santa Brigida di Svezia e Santa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein).
Qualcuno, con reminiscenze storiche più approfondite, dirà che il contributo di Benedetto da Norcia all’unificazione dell’Europa attraverso gli stessi valori predicati e vissuti, non ha avuto successo, se solo pensiamo a tutte le guerre e stragi orribili capitate nel Medio Evo e nell’Età moderna. Quando si pensa a tutta la violenza che si è scatenata durante tutto il Medioevo può sembrare che la lezione di Benedetto non sia stata compresa. Ma dovremmo piuttosto domandarci a quali eccessi si sarebbe spinta la gente del Medioevo, se all’inizio di quei secoli non si fosse levata questa grande e dolce voce”.
Anche se la sua lezione non è stata sempre seguita durante i secoli seguenti, Benedetto rimane uno dei grandi uomini dell’umanità, un grande santo della Chiesa Cristiana Cattolica un genio nel campo culturale-religioso. Un grande della Storia, insomma. Che merita ricordare anche a distanza di tanti secoli.

San Benedetto prega per la nostra cara Europa perchè possano essere riconosciute quelle radici cristiane su cui tutta la nostra cultura si fonda!

giovedì 9 luglio 2009

Chiedere la fede


A proposito di "cercatori di Dio"


Propongo la testimonianza di Africa che racconta alcune casualità accadute nella sua vita.


“Chiedere la fede? Io credo che o la si ha o non la si ha. Queste cose non si chiedono. Ma chiedila!, insisteva la voce interiore. D’accordo, facciamo un tentativo….”.

Mi chiamo Africa. Sono cresciuta in una famiglia dalle profonde radici cristiane; dopo aver studiato in una scuola di religiosi, a 17 anni non sono più andata a Messa. Non la trovavo attraente. Iniziata l’università, mi sono allontanata ancora di più da Dio e mettevo piede in chiesa solo quando andavo al matrimonio degli amici. Il mio unico contatto con Dio era un Padre nostro la sera e un altro al mattino. Lo recitavo in maniera meccanica; secondo me, per tranquillizzare la coscienza. Sentivo un vuoto tremendo quando pensavo alla morte e la vita che conducevo era tale che sono arrivata a pensare che desideravo proprio che Dio non esistesse…Ma in fondo io speravo che esistesse: egoisticamente e senza molta convinzione io chiedevo a questo Qualcuno un certo numero di cose…; ebbene, casualmente mi venivano tutte concesse! Pensavo sempre che era stato un caso, ma tra le mie amiche ormai si sussurrava che io ero una persona molto fortunata e che ero “nata con la camicia”. Terminati gli studi, pregai per trovare un lavoro… e ne arrivarono 3 nella stessa settimana! Un’altra volta, volendo cambiare datore di lavoro, ho pregato chiedendo un altro lavoro e ne è arrivato uno di gran lunga migliore, grazie a una telefonata con una persona che neppure conoscevo. Anche in altri aspetti della mia vita mi succedeva lo stesso. Pensavo sempre: è un caso! Un giorno – avevo già 39 anni – sono passata davanti a una chiesa e ho avvertito una specie di spinta. Sono entrata e mi sono seduta nell’ultimo banco. Ho guardato verso l’altare. Erano anni che non stavo tanto tempo immersa nei miei pensieri, circondata da un silenzio così confortante. “Che peccato! – pensavo –. Con la fede che avevo da ragazza…”; “Allora, chiedila!” – sentivo una voce dentro di me -. “Chiedere la fede? Io credo che la fede o la si ha o non la si ha. Queste cose non si chiedono”. “Ma chiedila!” – insisteva la voce interiore. D’accordo, facciamo un tentativo….”. Sono andata al primo banco, mi sono inginocchiata proprio di fronte al tabernacolo e ho chiesto: “Dio mio, voglio riavere la fede che avevo da bambina e voglio entrare in una chiesa e sentire quel rispetto e quel raccoglimento che sentivo ormai troppi anni fa… e che ora non sento”. Ancora una volta il mio desiderio si è adempiuto. Ho fatto un master nella ETS degli Ingegneri civili e ogni mattina, quando entravo nell’atrio dell’Università, un cartello sulla porta della cappella mi invitava al Sacramento della Confermazione: “Ancora non hai fatto la Cresima? Vieni e informati”. Accanto c’era il bar con il suo cartello che invitava a fare colazione: caffè e cornetto: 1 euro! Io passavo, leggevo i due cartelli e… facevo colazione. Finché un giorno mi son detta: perché non entrare e chiedere informazioni? Io non sono cresimata e mio figlio farà la prima Comunione fra pochi mesi. Che assurdità che mio figlio faccia la Prima Comunione, che potrebbe essere anche l’ultima se noi, suoi genitori, non lo accompagnassimo alla Messa! Noi siamo stati sposati dalla Chiesa, i bambini sono stati battezzati, ora li iscriviamo alla catechesi… Ma a che gioco giochiamo? Un po’ di coerenza, per favore… e sono entrata. Mi sono informata, mi sono preparata e ho ricevuto la Confermazione alcuni giorni prima della Comunione di nostro figlio. Durante la cerimonia mi sono emozionata a tal punto che non finivo di piangere e il Vescovo non sapeva se darmi prima il Santo Olio o un fazzoletto. Non so spiegare bene quello che provavo. Al momento dell’unzione ho avuto l’impressione che qualcuno mi mettesse sul capo un velo invisibile e sistemato alla svelta sul corpo.
In quella cappella della ETS, dove è cominciato il mio processo di conversione, c’erano degli scaffali con molti libri. Ho preso casualmente un volume dal titolo “Parlare con Dio”, di Francisco Fernández-Carvajal, e l’ho divorato. Cominciavo a voler sapere tutto su Gesù. Tutto. E ogni lettura stimolava ancora di più la mia straripante curiosità. Poi mi sono interessata al Catechismo. Ricordo ancora lo stupore che suscitavano in me i Comandamenti di Santa Madre Chiesa: andare a Messa tutte le domeniche e le feste comandate? Confessarsi e comunicarsi almeno una volta l’anno? Ma questo… è troppo! Questa è una legge che non si può osservare! Poi il cappellano di quella scuola mi ha dato un opuscolo sul Sacramento della Penitenza. Era tanto quello che si offriva alla mia vista che, ancora in preda alle vertigini, ho preso la decisione di andare a una delle lezioni di Teologia che impartivano in parrocchia. Io, che avevo una certa esperienza nel prendere appunti, ora che ero laureata ho scoperto con terrore che non riuscivo a cogliere neppure una frase sconnessa, mentre gli altri erano chini sui quaderni e prendevano nota. Assai scoraggiata, stavo per alzarmi disposta a gettare la spugna, quando una donna della mia età si è seduta accanto a me, dicendomi inaspettatamente:- Vuoi che io t’insegni e ti metta al corrente?- Davvero lo faresti?- Certo! Quando vuoi cominciare? Quella donna si è impegnata nella mia formazione cristiana e in essa ho scoperto una grande amica. Sono state lezioni private intensive, finché ho potuto reinserirmi e diventare una “alunna eccellente”. Insieme siamo andate a sentire varie conversazioni e meditazioni. Qualche tempo dopo ho riletto i Comandamenti della Santa Madre Chiesa: e ho notato che in verità propongono il minimo. Ora ringrazio Dio, perché capisco che non si tratta solo di adempiere la Legge, ma di godermi la mia fede. E ci proviamo…

domenica 5 luglio 2009

Per un confronto sereno ed amichevole

Cari amici,
in riferimento al post precedente riguardante la presentazione della "lettera ai cercatori di Dio" di Mons. Bruno forte, mi sento di ringraziare la mia cara amica Stella che, con il suo intervento, ha suscitato in me il desiderio di aprire con tutti voi un dialogo, per un sereno ed amichevole confronto, riguardo le possibili risonanze che la lettura del testo ha potuto suscitare nei vostri cuori.
Se vi riconoscete nelle parole di Mons. Forte o anche se avete delle perplessità, dite pure la vostra, sarò lieta di accogliere ogni considerazione come un arricchimento interiore per tutti noi.

Per iniziare il confronto, riporto qui l'intervento di Stella:"Marina, quanti concetti profondi... che sarebbero da analizzare in compagnia...Bagaglio culturale sicuramente utile!" Utile sì. Io credo che, tutti e proprio tutti, ci portiamo dentro quelle domande di senso a cui vorremmo dare risposte che spesso non troviamo o non riusciamo a comprendere. Tutta la vita è domanda e mistero, da sempre, ma nel corso della storia c'è stato un Evento che ha cambiato il modo di porsi di fronte alle tante inquietudini del nostro vivere, che ha lasciato e che continua a lasciare in ogni uomo un desiderio ardente di infinito anche se non sempre se ne ha la piena consapevolezza. Il Cristianesimo è questo evento storico che nessuno può negare. Ma come ci poniamo di fronte ad esso? Siamo anche noi, come i magi, in cammino nella notte seguendo la Stella?

Con questo spunto, vi lascio alle vostre riflessioni con la speranza di poterle accogliere.
Grazie a tutti.

giovedì 2 luglio 2009

Lettera ai cercatori di Dio


Cari amici lettori,

In tutte le librerie cattoliche è in vendita la "Lettera ai cercatori di Dio" scritta dai vescovi della CEI per proporre a tutti coloro che cercano ragioni per vivere una strada per incontrare Gesù, il Cristo, il Figlio del Dio vivente venuto fra noi.
Come richiesto dal mio amico Giorgio Bocci, pubblico la presentazione di questa lettera con cui Mons. Bruno Forte ( Arcivescovo di Chieti- Vasto e presidente della commissione Cei per la dottrina della fede) ha dato inizio al Convegno Pastorale Diocesano di Macerata ( al quale ho avuto l’onore di assistere personalmente) nella bella Abbazia di Santa Maria in Chiaravalle di Fiastra.
Si tratta di una presentazione che richiederà molto del vostro tempo e molta della vostra attenzione; non lasciatevi scoraggiare dalla lunghezza del testo, perdereste qualcosa di importante che vale veramente la pena leggere per le tante significative e profonde riflessioni che essa propone.

Mons. Bruno forte, esordisce con “ Il viaggio dei magi”, come metafora per presentare gli uomini di oggi quali “pellegrini alla ricerca della felicità”.

Riporto tutto il testo integrale

“Per cogliere la genesi profonda della Lettera ai cercatori di Dio, appena pubblicata dalla Commissione Episcopale per la dottrina della Fede, l’Annuncio e la Catechesi, quale strumento possibile per il primo annuncio, vorrei pensarne la struttura - scandita nelle tre parti delle domande che ci uniscono, del kérygma proposto e delle vie per il possibile incontro con Cristo - a partire da una narrazione evangelica, scelta come metafora della ricerca umana culminante nella finale esperienza di Dio: il viaggio, l’arrivo e la nuova partenza dei Magi. “Siamo venuti per adorarlo” (Mt 2,2): così essi affermano alla vista del Bambino. Nella notte del mondo, nella notte del cuore, essi si sono fatti pellegrini, guidati da una stella, per andare alla ricerca di Colui, che dà senso alla vita e alla storia. Giunti alla Sua presenza - la presenza tenerissima di un Bambino - hanno fatto l’unica cosa degna dell’incontro con la Verità in persona: lo hanno adorato. Proprio così, i Magi rappresentano tutti i cercatori della verità, pronti a vivere l’esistenza come esodo, in cammino verso l’incontro con la luce che viene dall’alto, a cui aprirsi nell’adorazione, che cambia il cuore e la vita.

1. Pellegrini nella notte: la domanda di una ricerca antica e sempre nuova… I Magi pellegrini nella notte rappresentano tutti i cercatori della verità, non solo chi crede e credendo ama l’invisibile Amato, attendendo nella speranza l’incontro della gloria futura, ma anche chi cerca non avendo il dono della fede. Il cosiddetto ateo, quando lo è non per semplice qualificazione esteriore, ma per le sofferenze di una vita che lotta con Dio senza riuscire a credere in Lui, vive in una medesima condizione di ricerca, di viva e spesso dolorosa attesa. La non credenza non è la facile avventura di un rifiuto, che ti lasci come ti ha trovato. La non credenza seria - non negligente e banale - è passione e sofferenza, militanza di una vita che paga di persona l’amaro coraggio di non credere. Lo mostra, ad esempio, il celebre aforisma 125 della Gaia Scienza, dove Nietzsche racconta del folle che nella chiara luce del mattino andò sulla piazza del mercato, tenendo accesa la lucerna e gridando: “Cerco Dio, cerco Dio”. “Dov’è Dio? Si è addormentato o si è perso come un bambino?” - domandano gli altri, prendendosi gioco di lui. E lui grida le parole, che segnano il destino di un’epoca: “Dio è morto... e noi lo abbiamo ucciso!” Ma subito dopo quelle parole aggiunge: “Saremo noi degni della grandezza di questa azione?”. E denuncia la verità del dolore infinito di non credere, il senso di una notte che è sempre più notte, di un abbandono, che è percezione di un’infinita orfananza. Questa pagina mostra come il non credere, se serio, sia tragico nella sua consapevolezza, indissociabile dall’infinito dolore dell’assenza, da un senso di solitudine e d’abbandono, quale solo la morte di Dio può creare nel cuore dell’uomo, nella storia del mondo. Il non credente pensoso, come il credente non negligente, è per questo un uomo che lotta con Dio: proprio così alla ricerca della verità, pellegrino nella notte, attratto e inquietato da una misteriosa stella. “Mi religion es luchar con Dios”, dirà di sé Miguel de Unamuno, il testimone del “sentimiento tragico de la vida”: la mia religione è tutta qui, “lottare con Dio”. E poichè “vivir es anelar la vida eterna”, il vivere è inesorabilmente segnato dalla tragicità di dover sostenere l’impari lotta. È questa l’altissima dignità del cercare la verità da parte di ciascuno, credente o non credente che sia. E la sola, vera notte del mondo è quella di chi non si riconosce in esodo, pellegrino verso una patria desiderata, ricercata e attesa…
I Magi, pellegrini nella notte, venuti da lontano, in cammino verso la meta cui li guida la misteriosa stella, rappresentano dunque la condizione umana nella sua struttura originaria di interrogazione e di ricerca. Come osserva il giovane Heidegger in Essere e tempo, vivere significa essere “gettati verso la morte”: all’immediata evidenza la vita appare come un lungo viaggio verso le tenebre, dove tutto sembra affondare nell’ultimo silenzio della morte. Per questo la vita è impastata di dolore: e per questo la vera domanda, quella sulla quale sta o cade la verità di ogni risposta, è e resta la domanda del dolore. Ogni pensiero nasce dal dolore della lacerazione e della morte. Se non esistesse la morte non esisterebbe il pensiero, non esisterebbe la vita, cioè la vita del pensiero che è la dignità del vivere di ciascuno di noi. È il patire, il morire che suscita in noi la domanda, accende la sete di ricerca, lascia aperto il bisogno di senso. Senza dolore non ci sarebbe la dignità dell’uomo che si interroga. Il dolore rivela allora la vita a se stessa più fortemente della morte, che lo produce, perché insegna che noi non siamo semplicemente dei gettati verso la morte, ma dei chiamati alla vita: il dolore è la felicità da cui siamo tutti attratti nel segno del suo contrario.
Un grande pensatore ebreo del Novecento, Franz Rosenzweig, apre la sua grande opera La stella della redenzione - dal titolo fascinoso che evoca appunto l’esperienza dei Magi - con le parole: Dalla morte. La stessa opera si chiude con le parole: Verso la vita. È questo l’itinerario del pensare. Dalla morte ci facciamo pellegrini verso la vita. Il cammino dell’uomo sta tutto in questo prendere sul serio la tragicità della morte, non fuggendola, non stordendosi rispetto ad essa né nascondendola, come ha fatto troppo spesso la modernità. Se guardiamo negli occhi la morte, allora si compie il miracolo: vivere non sarà più soltanto imparare a morire, ma sarà un lottare per dare senso alla vita. Dove nasce la domanda, dove l’uomo non si arrende di fronte al destino della necessità, e quindi alla morte che vince col suo silenzio tutte le cose, lì si rivela la dignità della vita, il senso e la bellezza di esistere. Lì l’essere umano capisce di non essere solo gettato verso la morte, ma chiamato alla vita: lì si riconosce come un “mendicante del cielo”. L’uomo è un cercatore di senso, qualcuno che cerca la parola che riesca a vincere l’ultimo orizzonte della morte e dia valore alle opere e ai giorni, offrendo dignità e bellezza alla tragicità del nostro vivere e del nostro morire. Perciò la condizione dell’essere umano è quella del pellegrino. L’uomo è un cercatore della patria lontana, che da questo orizzonte si lascia permanentemente provocare, interrogare, sedurre.
Se l’esodo è la condizione umana, se l’uomo è un pellegrino verso la vita e un mendicante del cielo, la grande tentazione sarà quella di fermare il cammino, di sentirsi arrivati, non più esuli in questo mondo, ma possessori, dominatori di un oggi che vorrebbe arrestare la fatica del viaggio. Una tradizione ebraica racconta di alcuni giovani, che chiedono a un vecchio rabbino quando sia cominciato l’esilio di Israele. “L’esilio di Israele - risponde il Maestro - cominciò il giorno in cui Israele non soffrì più del fatto di essere in esilio”. L’esilio non comincia quando si lascia la patria, ma quando non c’è più nel cuore la struggente nostalgia della patria. L’esilio è di chi ha dimenticato il destino, la meta più grande, il cielo del desiderio e della speranza. Heidegger, parlando della “notte del mondo” nella quale ci troviamo, dice che essa è l’assenza di patria, perché il dramma dell’uomo moderno non è la mancanza di Dio, ma il fatto che egli non soffra più di questa mancanza. Il dramma è di non avvertire più il bisogno di superare la morte, è di considerare dimora e patria, e non esilio, questo tempo presente. L’illusione di sentirsi arrivati, il pretendersi soddisfatti, compiuti nella propria vicenda, questa è la malattia mortale. Si è morti quando il cuore non vive più l’inquietudine e la passione del domandare, il desiderio del cercare ancora, di trovare per ancora domandare e cercare. Quando non lascerai più che a guidare i Tuoi passi sia la stella splendente nella notte, allora avrai perso la Tua lotta con la morte.
L’uomo che si ferma, sentendosi padrone e sazio della verità, l’uomo per il quale la verità non è più Qualcuno, da cui essere posseduto sempre più profondamente, ma qualcosa da possedere, quell’uomo ha ucciso in se stesso non solo Dio, ma anche la propria dignità di essere umano. La condizione umana è, insomma, una condizione esodale: l’uomo è in esodo, in quanto è chiamato permanentemente ad uscire da sé, ad interrogarsi, ad essere in cerca di una patria. Martin Lutero avrebbe detto sul letto di morte: “Wir sind Bettler: hoc est verum!” – “Siamo dei poveri mendicanti, questa è la verità”. Sono parole dette da un “homo religiosus” alla sera della vita, quando è ormai sulla soglia del mistero liberante per inabissarsi in esso e tutto vede nella verità che non mente. Povero mendicante è l’uomo nella verità del suo cuore e nel cuore della storia: un cercatore della verità, un mendicante del cielo. A quest’uomo, che siamo ognuno di noi nel più profondo di noi stessi, si rivolge la Lettera ai cercatori di Dio partendo dalle domande che ci uniscono tutti: felicità e sofferenza, amore fallimenti, lavoro e festa, giustizia e pace, la sfida di Dio…
2. Guidati dalla stella: l’annuncio del Dio che ha tempo per l’uomo. Se l’uomo è alla ricerca di Dio, Dio non di meno è alla ricerca dell’uomo. È quanto ci testimonia il Vangelo di Gesù: il Dio che egli annuncia è il Dio dell’avvento, il Dio che ha tempo per l’uomo. È il Dio che viene: venuto una volta, egli ha dischiuso un cammino, ha acceso un’attesa, ancora più grande del compimento realizzato. È questo il kérygma, l’annuncio gioioso del Dio con noi, l’eterno Emmanuele. Perciò, nella tradizione cristiana l’avvento di Dio nella storia è pensato come revelatio, una rivelazione: è uno svelarsi che vela, un venire che apre cammino, un ostendersi nel ritrarsi che attira. Negli ultimi secoli la teologia cristiana ha concepito la rivelazione soprattutto come Offenbarung, apertura, manifestazione totale. Così, in essa l’avvento di Dio è stato spesso pensato come esibizione senza riserve. Dio si sarebbe del tutto consegnato nelle nostre mani: la storia - dirà Hegel - non è che il “curriculum vitae Dei”, il pellegrinaggio di Dio per divenire se stesso. Con feroce parodia Nietzsche affermerà che questo “Dio è diventato finalmente comprensibile a se stesso nel cervello hegeliano”. È questa presunzione di ridurre Dio a certezza luminosa, a definizione chiara ed evidente, la pretesa dell’ideologia moderna, in tutte le sue forme,anche teologiche. Ma questo è precisamente l’opposto dell’annuncio cristiano: interpretare la rivelazione come manifestazione totale, come risposta incondizionata e senza riserve alle domande del nostro cuore o della nostra mente, è il più grande tradimento che di essa si possa fare.
È allora necessario liberarsi dal fraintendimento radicale del concetto di rivelazione. Perché revelatio è, sì, un togliere il velo, ma è anche un più forte nascondere. Re-velare è anche un’intensificazione del velare, un nuovamente velare. È questo l’avvento di Dio nelle nostre parole, nella nostra carne: rivelandosi, l’Eterno non solo si è detto, ma si è anche più altamente taciuto. Rivelandosi Dio si vela. Comunicandosi si nasconde. Parlando si tace. Maestro del desiderio, Dio è colui che dando se stesso, al tempo stesso si nasconde allo sguardo. Dio è colui che rapendoti il cuore, si offre a te sempre nuovo e lontano. Il Dio di Gesù Cristo è inseparabilmente il Dio rivelato e nascosto, absconditus in revelatione - revelatus in absconditate! Perciò, la rivelazione non è ideologia, visione totale, ma è parola che schiude i sentieri abissali dell’eterno Silenzio. Questa intuizione è presente fin dalle origini della fede cristiana, che riconosce ben presto il Cristo come “il Verbo procedente dal Silenzio” (Sant’Ignazio di Antiochia, Ad Magnesios, 8). Essa permane nella tradizione della fede, specialmente nella testimonianza dei mistici. San Giovanni della Croce in una delle sue Sentenze d’amore dice: “Il Padre pronunciò la Parola in un eterno silenzio, ed è in silenzio che essa deve essere ascoltata dagli uomini”. Il luogo e l’origine della Parola è il Silenzio. Questo divino Silenzio col linguaggio del Nuovo Testamento lo chiamiamo Padre. Il Padre genera la Parola, il Figlio. E noi accoglieremo la Parola se, ascoltandola, la trascenderemo verso il Silenzio della sua origine. Obbedisce veramente alla Parola chi non si ferma alla lettera, ma ruminando la Parola, scava in essa per entrare nei sentieri del Silenzio.
Questo ci dice la rivelazione cristiana: Dio è Parola, Dio è Silenzio. La Parola è e resta l’unico accesso al Silenzio della divinità, l’indispensabile luogo a cui resteremo appesi, come inchiodati alla Croce. Tuttavia, ameremo la Parola, l’ascolteremo veramente quando l’avremo trascesa per camminare in una inesausta, perseverante ricerca verso le profondità del Silenzio. Questo ci hanno insegnato i nostri padri nella fede: la “lectio divina”, la “ruminatio Verbi” non sono che vie per imparare ad ascoltare nella Parola il Silenzio da cui essa proviene, l’abisso che essa dischiude. Credere nella Parola dell’avvento sarà allora lasciare che la Parola, schiudendo i sentieri del Silenzio, ci contagi questo Silenzio e ci apra a dire nello Spirito le parole della vita. Perciò è doveroso non pronunciare mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio. Così, la Parola sta fra due silenzi, il Silenzio dell’origine e il Silenzio del destino o della patria, il Padre e lo Spirito Santo. Tra questi due Silenzi - gli “altissima silentia Dei” - è la dimora del Verbo. Ed io accoglierò il Dio dell’avvento, il Dio della Parola, se in questa Parola troverò l’accesso agli abissi del Silenzio, e se, camminando in essa e attraverso di essa nei sentieri del Silenzio, lascerò che questa Parola mi abiti, si ripeta in me, si dica nel mio silenzio, affinché io stesso divenga il riposo della Parola, il luogo dove la Parola si lascia custodire e dire, come nel grembo verginale della Donna che ha detto “sì” al mistero dell’avvento. Perciò, il kérygma è parola che dice e tace, che provoca ed evoca: e perciò nella Lettera ai cercatori di Dio l’annuncio è presentato con tratti brevi, in forma soprattutto narrativa, come voce di testimoni legati alla catena degli innumerevoli altri testimoni della tradizione della fede, da parola a parola, da silenzio a silenzio. Così lo presentano i capitoli della seconda parte, dedicati rispettivamente al Gesù storico, al Cristo del kérygma, alla Trinità, alla Chiesa, alla vita secondo lo Spirito, di cui è icona eloquente la Vergine Madre Maria...
3. Videro il Bambino e lo adorarono: la fede, dove domanda e annuncio si incontrano. Pellegrini nella notte, guidati dalla stella, i Magi hanno riconosciuto nel Bambino il dono della verità, la luce che salva. Lo hanno adorato: in questa adorazione il cercatore è stato raggiunto dalla Parola che viene dal Silenzio, da quel Dio, cioè, che ha tempo per l’uomo. Dio esce dal silenzio perché la nostra storia entri nel Silenzio della patria divina e vi dimori. L’incontro dell’umano andare e del divino venire è la fede. Essa è lotta, agonia, non il riposo tranquillo di una certezza posseduta. Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede. La fede è l’esperienza di Giacobbe. Dio è l’assalitore notturno. Dio è l’Altro. Se tu non conosci così Dio, se Dio per te non è fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te soltanto tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente, ma il “Deus mortuus”, il “Deus otiosus”. Perciò Pascal affermava che Cristo sarà in agonia fino alla fine del tempo: questa agonia è l’agonia dei cristiani, la lotta di credere, di sperare, di amare, la lotta con Dio! Dio è altro da te, libero rispetto a te, come tu sei altro da Lui, libero rispetto a Lui. Guai a perdere il senso di questa distanza!
Ecco perché il desiderio e l’inquietudine della ricerca abiteranno sempre la fede: l’aver conosciuto il Signore non esimerà nessuno dal cercare sempre più la luce del Suo Volto, accenderà anzi sempre più la sete dell’attesa. Credere è cor-dare, come pensavano i Medievali, un dare il cuore che implica la continua lotta con l’Altro, che non viene afferrato, ma sempre di nuovo ti afferra. Il credente è e resta in questo mondo un cercatore di Dio, un mendicante del Cielo, sulle cui labbra risuonerà sempre la struggente invocazione del Salmista: “Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto” (Salmo 27,8s). Davide, l’amato, cerca il volto rivelato e nascosto del suo Dio: volto rivelato, perché non potrebbe essere cercato se in qualche misura non avesse già raggiunto e rapito il suo cuore; e, tuttavia, volto nascosto, perché resta ardente in quello stesso cuore il desiderio della visione. Nella notte del tempo la sua anima si mostra ancora assetata della luce dell’Eterno. Il volto del Signore vuole essere sempre cercato: lo lascia intendere anche il termine ebraico “panim”, “volto”, vocabolo sempre plurale, che dice come il volto sia continuamente nuovo e diverso, mai uguale a se stesso eppur sempre lo stesso, com’è l’amore di Dio, fedele in eterno e proprio perciò nuovo in ogni stagione del cuore.
In questa incessante ricerca del Volto amato, il credente mostra di essere veramente raggiunto, toccato e trasformato dal divino Altro, rivelato e nascosto: che cos’è peraltro la sua fede, se non il lasciarsi far prigionieri dell’invisibile? E questo avviene in un incontro sempre nuovo, mai dato per scontato, nei luoghi che la Lettera ai cercatori di Dio indica nella terza parte: la preghiera, l’ascolto della Parola di Dio, i sacramenti, il servizio della carità, l’attesa della vita eterna e il desiderio della bellezza divina. Chi crede non è mai un arrivato, vive al contrario da pellegrino in una sorta di conoscenza notturna, carica di attesa, sospesa tra il primo e l’ultimo avvento, già confortata dalla luce che è venuta a splendere nelle tenebre e tuttavia in una continua ricerca, assetata di aurora. Il mondo della fede non è ancora pienamente illuminato dal giorno radioso e splendido, che appartiene ad un altro tempo e ad un’altra patria, e tuttavia è sufficientemente rischiarato per sopportare la fatica di conservare l’amore e la speranza di Cristo. Pellegrino verso la luce, già conosciuta e non ancora pienamente raggiunta, chi crede avanza nella notte, appeso alla Croce del Figlio, vera stella della redenzione.
Ma la fede è anche resa e abbandono: quando tu nella lotta capisci che vince chi perde e perdutamente ti consegni a Lui, quando ti arrendi all’assalitore notturno e lasci che la tua vita venga segnata per sempre da quell’incontro, puoi vivere la fede come un consegnarsi ciecamente all’Altro: “Tu mi hai sedotto, o Signore, ed io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto forza e hai prevalso... Mi dicevo: Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome! Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,7. 9). Nelle “confessioni” di Geremia troviamo un’altissima testimonianza di questa resa della fede: egli è un uomo che ha vissuto la lotta con Dio, ma che lottando ha saputo conoscere la capitolazione dell’amore al punto da essere pronto a consegnarsi perdutamente a Lui. Così la fede diventa anche un approdo di bellezza e di pace. Non la bellezza che il mondo conosce, non la seduzione di una verità totale, che ambisca a spiegare ogni cosa,ma la bellezza dell’Uomo dei dolori, dell’amore crocifisso, della vita donata, dell’offerta di sé al Padre e agli uomini. La pace della fede non è l’assenza di lotta, di agonia, di passione, ma è il vivere perdutamente arresi all’Altro, allo Straniero che invita, al Dio vivente.
L’adorazione di cui i Magi sono testimoni non è, allora, assenza di scandalo, ma presenza di un più forte amore: la fede è scandalo, non risposta tranquilla alle nostre domande, ma, come lo è Cristo, sovversione di ogni nostra domanda, ricerca del suo Volto, desiderato, rivelato e nascosto. Solo dopo che noi lo avremo ciecamente seguito e avremo accettato di amarlo dove e come Lui vorrà, Egli diverrà per noi la sorgente della gioia che non conosce tramonto. Crederemo in Dio se saremo sempre cercatori del Suo volto, guidati dalla stella venuta nella notte, Gesù. Perciò, il credente non è che un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. Se non fosse tale, la sua fede non sarebbe altro che un dato sociologico, una rassicurazione mondana, una delle tante ideologie che hanno illuso il mondo e determinato l’alienazione dell’uomo. La sua luce resterebbe quella del tramonto: “La terra interamente illuminata risplende di trionfale sventura” (M. Horkheimer – Th. W. Adorno). Diversamente da ogni ideologia, la fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giorno, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare. Proprio così, la Lettera ai cercatori di Dio non è un punto di arrivo, ma un inizio. La luce della fede è aurora di chi sa aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio nello stupore e nell’adorazione.
Per un’altra strada fecero ritorno al loro paese: una conclusione che è un inizio…
Da questa apologia della ricerca, di cui i pellegrini guidati dalla stella sono modello fino all’approdo pervaso dallo stupore dell’adorazione, viene allora un grande no: il no alla negligenza della fede, il no ad una fede indolente, statica ed abitudinaria. E ne viene il sì ad una fede interrogante, capace ogni giorno di cominciare a consegnarsi perdutamente all’altro, a vivere l’esodo senza ritorno verso il Silenzio di Dio, dischiuso e celato nella Sua Parola. Quel no raggiunge però anche il non credente tranquillo, incapace di aprirsi alla sfida del Mistero, attestato nella presunzione del “come se Dio non ci fosse”, non disposto a rischiare la vita “come se Dio esistesse”. Se c’è una differenza da marcare, allora, nella ricerca della verità che è la ricerca di Dio, non è anzitutto quella tra credenti e non credenti, ma l’altra tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria.
Con questa, è un’altra differenza che va ricordata e che resta sullo sfondo di qualunque approccio alla ricerca di Dio e agli strumenti dell’annuncio della fede: quella fra “ammiratori” e “imitatori”. Così la esprime Søren Kierkegaard in un testo di grande incisività: “Che differenza c'è fra un ammiratore e un imitatore? Un imitatore è ossia aspira a essere ciò ch’egli ammira; un ammiratore invece rimane personalmente fuori: in modo conscio o inconscio egli evita di vedere che quell’oggetto contiene nei suoi riguardi l'esigenza d'essere o almeno d'aspirare a essere ciò ch'egli ammira» (S. Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, 812). Perciò “tutta la vita del Cristo sulla terra, dal principio alla fine, fu indirizzata assolutamente ad avere solo imitatori e a impedire gli ammiratori” (810). Essere imitatori e non ammiratori di Gesù o dei suoi testimoni più luminosi, i santi, esige però una decisione, che si può prendere solo in prima persona: “Camminare soli! Sì, nessun uomo, nessuno, può scegliere per te oppure in senso ultimo e decisivo può consigliarti riguardo all'unica cosa importante, riguardo all'affare della tua salvezza... Soli! Poiché quando hai scelto, troverai certamente dei compagni di viaggio, ma nel momento decisivo e ogni volta che c'è pericolo di vita, sarai solo” (Vangelo delle sofferenze, 833).
L’appello a questa decisione per Cristo è la soglia cui la Lettera ai cercatori di Dio vorrebbe condurre: la decisione stessa non potrà che avvenire però nel cuore e nella libertà di ciascuno. Solo allora, quando avremo deciso di farci pellegrini nella notte alla luce della Stella, potremo far nostra la preghiera dell’innamorato di Dio, che ha incontrato l’Amato e ancor più desidera incontrarLo, la preghiera con cui Anselmo apre il suo Proslogion, voce della sua sete di autentico cercatore di Dio: “‘II Tuo volto, Signore, io cerco’ (Sal 26, 8). Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come cercarTi, dove e come trovarTi... Che cosa farà, o altissimo Signore, questo esule, che è così distante da Te, ma che a Te appartiene? Che cosa farà il Tuo servo tormentato dall’amore per Te e gettato lontano dal Tuo volto? Anela a vederTi e il Tuo volto gli è troppo discosto. Desidera avvicinarTi e la Tua abitazione è inaccessibile... Insegnami a cercarTi e mostraTi quando Ti cerco: non posso cercarTi se Tu non mi insegni, né trovarTi se non Ti mostri. Che io Ti cerchi desiderandoTi e Ti desideri cercandoTi, che io Ti trovi amandoTi e Ti ami trovandoTi”.

mercoledì 1 luglio 2009

Luglio, mese del preziosissimo sangue di Gesù


Carissimi! Inizia oggi il mese di Luglio, che la tradizione popolare dedica alla contemplazione del Preziosissimo Sangue di Cristo, mistero insondabile di amore e di misericordia. Il Sangue di Cristo è la prova inconfutabile dell'amore del Padre celeste per ogni uomo, nessuno escluso. Tutto questo è stato ben sottolineato dal Beato Giovanni XXIII, devoto al Sangue del Signore fin dall'infanzia, quando in famiglia ne sentiva recitare le speciali Litanie. Eletto Papa, scrisse una Lettera apostolica per promuoverne il culto (Inde a primis, 30 giugno 1959) invitando i fedeli a meditare sul valore infinito di quel Sangue, del quale "una sola goccia può salvare tutto il mondo da ogni colpa" disse Tommaso d'Aquino, in virtù dei meriti infiniti che gli conferirono l'unione con la Persona divina del Verbo. E fu un fiume che si spanse sulla terra dal Golgota e che si riversò dal Cuore aperto dalla lancia del soldato romano per manifestarci l'ardore del suo infinito Amore.
Giovanni Paolo II 1 Luglio 2001


Preghiera

O piaghe, o Sangue prezioso del mio Signore, che io ti benedica in eterno.
O amore del mio Signore divenuto piagato ! Quanto siamo lontani dalla conformità alla tua vita.
O Sangue di Gesù Cristo, balsamo delle nostre anime, sorgente di ogni misericordia, fa che la mia lingua imporporata di sangue nella quotidiana celebrazione della Messa, ti benedica adesso e sempre.
O Signore, chi non ti amerà ?
Chi non arderà di affetto verso di te ?
Le tue piaghe, il tuo Sangue, le spine, la Croce: il Divin Sangue in particolare, versato fino all'ultima stilla, con quale voce eloquente grida al mio povero cuore !
Poiché tu agonizzasti e moristi per me e per salvarmi, io darò se occorre, anche la vita, perché giunga al possesso beato del cielo.
O Gesù, sei stato fatto per noi redenzione.
Dal tuo costato aperto, arca di salute, fornace di carità, uscì sangue ed acqua a ricordo del bene dei sacramenti e della tenerezza del tuo amore, o Cristo, che ci hai amato e lavato nel tuo Sangue !
Anima di Cristo santificami.
Corpo di Cristo, salvami.
Sangue di Cristo, inebriami.
Acqua del costato di Cristo, lavami.
Passione di Cristo, confortami.
O buon Gesù, esaudiscimi.
Dentro le Tue piaghe nascondimi.
Non permettere ch’io mi separi da Te.
Dal nemico maligno difendimi.
Nell’ora della mia morte chiamami.
Fa’ ch’io venga a Te, a lodarti con i Tuoi santi, nei secoli dei secoli. Amen.
PADRE NOSTRO