lunedì 27 giugno 2011

Solennità del Corpus Domini

Commento al Vangelo della Solennità del Corpus Domini
di Monsignor Giovanni Scognamilio Clá Dias, fondatore degli Evangeli Praecones
courtesy of http://www.salvamiregina.it/default.asp
 
Un insuperabile dono...
L’amore di Dio per gli uomini, manifestato nell’Incarnazione, ha raggiunto un apice inimmaginabile con l’istituzione dell’Eucaristia. Qual è la nostra risposta ad un così grande dono?
Mons. João Scognamiglio Clá Dias, EP
 
 
 
Vangelo
"In quel tempo, Gesù disse alle moltitudini dei giudei: 51 ‘Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo’.
52 Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: ‘Come può costui darci la sua carne da mangiare?’. 53 Allora Gesù disse: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno’" (Gv 6, 51-58).
 
I – Dio Si dà interamente
Esistendo da tutta l’eternità, la Trinità non aveva bisogno della creazione. Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo bastavano del tutto a se stessi, godendo una felicità perfetta e infinita. In questo consiste la gloria intrinseca e insuperabile delle Tre Persone Divine. Tuttavia, creando, Dio ha voluto rendere le creature partecipi della sua felicità, e queste, nell’assomigliare al Creatore, Gli avrebbero reso la gloria estrinseca, realizzando così la più alta finalità del loro essere. La creazione è stata, dunque, un atto di donazione, di dedizione e di generosità supreme (1), arricchito in seguito dall’Incarnazione del Verbo, quando Dio Si è assoggettato ad assumere la povera natura umana allo scopo di redimerci dal peccato dei nostri primi padri.
L’Uomo-Dio avrebbe dovuto prolungare la sua presenza sulla Terra
Ma l’amore incommensurabile di Dio per noi non si è limitato solo a questo: per aprirci le porte del Cielo, è arrivato al punto da soffrire una dolorosa Passione, morire sulla Croce e risorgere. E lo avrebbe fatto, se fosse stato necessario, per riscattare un uomo soltanto. Ora, dobbiamo chiederci: dopo aver espresso questo amore incredibile per noi, Egli avrebbe semplicemente dovuto salire al Cielo e abbandonare la comunione con gli uomini la cui redenzione Gli era costata così cara? Sarebbe possibile immaginare, dopo una tale unione con noi, che si verificasse questa irrimediabile separazione?
La meravigliosa soluzione a questo problema, che ci lascia perplessi, solo Dio poteva trovarla. Commenta bene, a tal proposito, il Prof. Plinio Corrêa de Oliveira:
"Non voglio dire che la Redenzione e il sacrificio della Croce imponessero a Dio, a rigor di logica, l’istituzione della Sacra Eucaristia. Ma si può dire che tutto invocava, tutto urlava, tutto supplicava perché Nostro Signore non Si separasse così dagli uomini. Una persona con un po’ di immaginazione dovrebbe intravvedere che Nostro Signore avrebbe trovato un mezzo per essere sempre presente, con ciascuno degli uomini da Lui redenti, in modo tale che, dopo l’Ascensione, Egli fosse sempre in Cielo, sul trono di gloria che Gli è dovuto, ma allo stesso tempo, seguisse passo passo la via dolorosa di ogni uomo qui sulla Terra, fino al momento estremo in cui ognuno dicesse, a sua volta ‘Consummatum est’ (Gv 19, 30)" (2).
Conclude con questa pia confidenza: "Credo che se io avessi assistito alla Crocifissione e avessi saputo dell’Ascensione, anche se non avessi saputo dell’Eucaristia, avrei cominciato a cercare Gesù Cristo in tutta la Terra, perché non sarei riuscito a convincermi che Lui avesse smesso di convivere con gli uomini. Questa comunione veramente meravigliosa di Gesù Cristo con gli uomini si fa, esattamente, per mezzo dell’Eucaristia" (3)
Il fatto che Dio abbia operato la Creazione per darSi a Se stesso già ci riempie di meraviglia. Molto di più, tuttavia, è il fatto che Lui abbia assunto la natura umana per propiziarci, con la sua morte, l’infinito dono della vita soprannaturale e aprirci le porte del Cielo. Tuttavia, portare l’amore al punto di darSi agli uomini in alimento, supera qualunque capacità di immaginazione! Si può dire a ragione che l’apice di questa donazione, si trova nel Sacramento dell’Eucaristia.
Apparente semplicità della Santa Cena
Come avvenne l’istituzione del più eccellente e sublime dei Sacramenti, il fine a cui si ordinano tutti gli altri apparentemente, in un modo molto semplice. Per gli Apostoli, si trattava di una delle solite cene, celebrate ogni anno dai giudei secondo il plurisecolare rito indicato dettagliatamente da Dio a Mosè e Aronne, come qualcosa da esser perpetuato di generazione in generazione (cfr. Es 12, 1-14). Essa ricordava ai giudei la Pasqua del Signore, la morte dei primogeniti dell’Egitto e la traversata del Mar Rosso. I discepoli erano, pertanto, dell’idea che si trattasse di una semplice commemorazione religiosa, quando di fatto si sarebbe realizzato nel Cenacolo quanto era stato prefigurato nell’Antica Legge: il sacrificio di animali avrebbe ceduto il posto all’olocausto dell’Agnello Divino che tra breve sarebbe stato immolato sull’altare della Croce, per la nostra salvezza. Le vittime materiali simbolizzavano il corpo di Cristo che sarebbe stato nel contempo sacerdote e vittima nel Nuovo Sacrificio, eterno e di valore infinito.
Secondo quanto riferiscono gli Evangelisti, dopo che Gesù ebbe istituito l’Eucaristia e dato la Comunione agli Apostoli, essi cantarono i salmi e uscirono alla volta del Monte degli Ulivi (cfr. Mc 14, 26; Mt 26, 30). Costituivano questi salmi il canto di rendimento di grazie intitolato Hallel – "Lodate Javé" –, proprio della liturgia ebraica per la celebrazione della Pasqua (5) e particolarmente simbolico in quella circostanza: mentre gli uni rendevano grazie per essersi comunicati, il Messia rendeva lode al Padre per l’istituzione dell’Eucaristia, che rappresentava la concretizzazione dell’anelito manifestato all’inizio della Sacra Cena: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione" (Lc 22, 15).
Se avessero saputo con anticipo la grandezza di quello che sarebbe stato istituito quel giorno – non solo l’Eucaristia, ma anche il Sacerdozio –, c’è da supporre che gli Apostoli avrebbero preparato una cerimonia all’altezza, ma in quel momento, chi aveva nozione di quanto stava succedendo? 

 

lunedì 20 giugno 2011

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

Domenica 19 giugno 2011

Ragioni della festa e della sua tarda istituzione.

Abbiamo visto gli Apostoli nel giorno della Pentecoste ricevere lo Spirito Santo e, fedeli all'ordine del Maestro (Mt 28,19) partire subito per andare ad ammaestrare tutte le genti, e battezzare gli uomini nel nome della Santissima Trinità. Era dunque giusto che la solennità che ha per scopo di onorare il Dio unico in tre persone seguisse immediatamente quella della Pentecoste alla quale è unita da un misterioso legame. Tuttavia, solo dopo lunghi secoli essa è venuta a prender posto nell'Anno liturgico, che si va completando nel corso del tempo.
Tutti gli omaggi che la Liturgia rende a Dio hanno per oggetto la divina Trinità. I tempi sono per essa così come l'eternità; essa è l'ultimo termine di tutta la nostra religione. Ogni giorno ed ogni ora le appartengono. Le feste istituite per commemorare i misteri della nostra salvezza finiscono sempre ad essa. Quelle della Santissima Vergine e dei Santi sono altrettanti mezzi che ci guidano alla glorificazione del Signore unico nell'essenza e triplice nelle persone; quanto all'Ufficio divino della Domenica in particolare, esso offre ogni settimana l'espressione formulata in modo particolare, dell'adorazione e dell'omaggio verso questo mistero, fondamento di tutti gli altri e sorgente di ogni grazia.
Si comprende così perché la Chiesa abbia tardato tanto ad istituire una festa speciale in onore della Santissima Trinità. Mancava del tutto la ragione ordinaria che motiva l'istituzione delle feste. Una festa è la fissazione di un fatto che è avvenuto nel tempo e di cui è giusto perpetuare il ricordo e la risonanza: ora, da tutta l'eternità, prima di qualsiasi creazione, Dio vive e regna, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Questa istituzione non poteva dunque consistere se non nel fissare sul Calendario un giorno particolare in cui i cristiani si sarebbero uniti in un modo per così dire più diretto nella solenne glorificazione del mistero dell'Unità e della Trinità in una stessa natura divina.

Storia della festa.
Il pensiero si presentò dapprima ad alcune di quelle anime pie e raccolte che ricevono dall'alto il presentimento delle cose che lo Spirito Santo compirà più tardi nella Chiesa. Fin dal secolo VIII, il dotto monaco Alcuino, ripieno dello spirito della Liturgia, credette giunto il momento di redigere una Messa votiva in onore del mistero della Santissima Trinità. Sembra pure che vi sia stato spinto da un desiderio dell'apostolo della Germania, san Bonifacio. La Messa costituiva semplicemente un aiuto alla pietà privata, e nulla lasciava prevedere che ne sarebbe derivata un giorno l'istituzione di una festa. Tuttavia la devozione a questa Messa si estese a poco a poco, e la vediamo accettata in Germania dal Concilio di Seligenstadt, nel 1022.
Ma a quell'epoca in una chiesa del Belgio era già in uso una festa propriamente detta della Santissima Trinità. Stefano, vescovo di Liegi, aveva istituito solennemente la festa della Santissima Trinità nella sua Chiesa nel 920, e fatto comporre un Ufficio completo in onore del mistero. A quei tempi non esisteva ancora la disposizione del diritto comune che riserva alla Santa Sede l'istituzione delle nuove feste, e Richiero, successore di Stefano nella sede di Liegi, tenne in piedi l'opera del suo predecessore.
Essa si estese a poco a poco, e pare che l'Ordine monastico le sia stato subito favorevole; vediamo infatti fin dai primi anni del secolo XI, Bernone, abate di Reichenau, occuparsi della sua propagazione. A Cluny, la festa si stabilì abbastanza presto nel corso dello stesso secolo, come si può vedere dall'Ordinario di quel monastero redatto nel 1091, in cui essa si trova menzionata come istituita già da un certo tempo.
Sotto il pontificato di Alessandro II (1061-1073), la Chiesa Romana, che ha spesso sanzionato, adottandoli, gli usi delle chiese particolari, dovette esprimere un giudizio su questa nuova festa. Il Pontefice, in una delle sue decretali, pur costatando che la festa è già diffusa in molti luoghi, dichiara che la Chiesa Romana non l'ha accettata per il fatto che ogni giorno l'adorabile Trinità è senza posa invocata con la ripetizione delle parole: Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto, e in tante altre formule di lode.
Tuttavia la festa continuava a diffondersi, come attesta il Micrologio; e nella prima parte del secolo XII, l'abate Ruperto affermava già la convenienza di quella istituzione, esprimendosi al riguardo come faremmo oggi noi: "Subito dopo aver celebrato la solennità della venuta dello Spirito Santo, cantiamo la gloria della Santissima Trinità nell'Ufficio della Domenica che segue, e questa disposizione è molto appropriata poiché subito dopo la discesa di quel divino Spirito cominciarono la predicazione e la fede e, nel battesimo, la fede, la confessione del nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo" (Dei divini Uffici, l. xii, c. i).
In Inghilterra l'istituzione della festa della Santissima Trinità ebbe come autore principale il martire san Tommaso di Cantorbery. Fu nel 1162 che egli la istituì nella sua Chiesa, in ricordo della sua consacrazione episcopale che aveva avuto luogo la prima Domenica dopo la Pentecoste. Per la Francia troviamo nel 1260 un concilio di Arles presieduto dall'arcivescovo Florentin, che nel suo sesto canone inaugura solennemente la festa aggiungendovi il privilegio d'una Ottava. Fin dal 1230 l'ordine dei Cistercensi, diffuso nell'intera Europa, l'aveva istituita per tutte le sue case; e Durando di Mende, nel suo Razionale, lascia concludere che il maggior numero delle Chiese latine, durante il secolo XIII usava già la celebrazione di questa festa. Fra tali Chiese ve ne erano alcune che la ponevano non alla prima bensì all'ultima Domenica dopo la Pentecoste e altre che la celebravano due volte: una prima all'inizio della serie delle Domeniche che seguono la solennità di Pentecoste, e una seconda volta alla Domenica che precede immediatamente l'Avvento. Questo uso era mantenuto in modo particolare dalle Chiese di Narbona, di Le-Mans e di Auxerre.
Si poteva sin d'allora prevedere che la Santa Sede avrebbe finito per sanzionare una istituzione che la cristianità desiderava di vedere stabilita dappertutto. Giovanni XXII, che occupò la cattedra di san Pietro fino al 1334, completò l'opera con un decreto nel quale la Chiesa Romana accettava la festa della Santissima Trinità e la estendeva a tutte le Chiese.
Se si cerca ora il motivo che ha portato la Chiesa, guidata in tutto dallo Spirito Santo, ad assegnare così un giorno speciale nell'anno per rendere un solenne omaggio alla divina Trinità, quando tutte le nostre adorazioni, tutti i nostri ringraziamenti, tutti i nostri voti salgono in ogni tempo verso di essa, lo si troverà nella modificazione che si andava introducendo allora nel calendario liturgico. Fin verso il 1000, le feste dei santi universalmente onorati erano molto rare. Da quell'epoca appaiono in maggior numero, ed era da prevedere che si sarebbero moltiplicate sempre di più. Sarebbe giunto il tempo - e sarebbe durato per secoli - in cui l'Ufficio della Domenica che è consacrata in modo speciale alla Santissima Trinità, avrebbe ceduto spesso il posto a quello dei Santi riportati dal corso dell'anno. Si rendeva dunque necessario, per legittimare in qualche modo questo culto dei servi nel giorno consacrato alla suprema Maestà, che almeno una volta nell'anno la Domenica offrisse l'espressione piena e diretta di quella religione profonda che l'intero culto della santa Chiesa professa verso il sommo Signore, che si è degnato di rivelarsi agli uomini nella sua unità ineffabile e nella sua eterna Trinità.


lunedì 13 giugno 2011

In cammino verso loreto

 Cari amici, vi propongo l'omelia di S.E.R. Mons. Jean Bruges che ha presieduto la Santa Messa prima dell'inizio del 33^  pellegrinaggio a piedi Macerata-Loreto.




Nel giorno della Pentecoste


 Il filosofo e il mendicante
Si constàta con soddisfazione che i pellegrinaggi non hanno mai attirato tanta gente come ai nostri giorni. Io stesso, che sono nato a circa venticinque chilometri da Lourdes, posso testimoniare che le folle di pellegrini non sono state mai così numerose. E’ davvero una cosa stupefacente: più le nostre società si secolarizzano, e si comportano, per riprendere le parole del nostro Papa, «come se Dio non esistesse», e più le manifestazioni di devozione semplice e fervente, in una parola popolare, attirano un numero crescente di persone appartenenti a tutte le categorie sociali. I giovani non sono gli ultimi a unirsi a queste manifestazioni, al contrario. Giovanni Paolo II, beatificato appena un mese fa, ha avuto questa idea geniale di proporre ai giovani una forma rinnovata di pellegrinaggio con le Giornate mondiali della gioventù. Approfitto per invitare i giovani presenti questa sera a raggiungerci presto a Madrid per Giornate che promettono di essere particolarmente riuscite: pensate che si attendono più di due milioni di giovani provenienti da tutto il mondo!
Anche qui, a Loreto, è veramente spettacolare! Ho molto predicato nella mia vita di domenicano, poi di vescovo, ma mai mi sono trovato davanti a una tale affluenza: ottantamila persone, mi dicevano gli organizzatori! Posso confidarvi che un’assemblea del genere mi impressiona un po’? Sono intimidito, tanto più che è la prima volta nella mia vita che vengo in questo luogo, mentre la maggior parte di voi, in particolare i membri di Comunione e liberazione, sono diventati dei fedeli abituali. Perciò ho pensato di parlare di Loreto attraverso due Francesi, due personaggi stupefacenti e che sono diventati per me, malgrado la distanza storica, come dei familiari.
Il primo è un filosofo; voi avete sicuramente sentito parlare di lui: è il grande Cartesio. Colui che ha fondato la filosofia moderna, e quindi in un certo senso la modernità stessa; colui che si vede presentato spesso come uno spirito razionalista, critico contro ogni forma di tradizione, è rimasto, nonostante tutto ciò che si dice, un cristiano convinto per tutta la durata della sua esistenza. Nella notte dal 10 all’11 novembre 1619, infatti, Cartesio ha avuto una specie di rivelazione mistica: tre angeli gli sono apparsi in sogno e gli hanno fatto vedere che era destinato a unificare tutte le conoscenze umane grazie ad una “scienza ammirabile” di cui sarebbe l’inventore. Dopo questa notte, il filosofo fece il voto di venire in pellegrinaggio a Loreto, da una parte per rendere grazie di questa specie di missione che credeva gli fosse stata affidata, e dall’altra per raggiungere, attraverso un contatto fisico con la casa della Vergine, la Madre del Logos, Colui per mezzo del quale tutto è stato fatto, come ripeteremo tra poco cantando il Credo: egli fece il viaggio appositamente nel 1623.
Si può dunque essere moderno e compiere dei pellegrinaggi. Ci possiamo affidare alla ragione, alla semplice ragione umana, e ricercare Dio, seguire le sue tracce fino a volere toccare le pietre che sono appartenute alla casa nella quale la Santa Vergine è vissuta.
Il secondo personaggio che vorrei evocare è molto diverso. Questo Francese non era mai riuscito a stabilizzarsi in un luogo; diventato vagabondo, viveva di mendicità, andando di villaggio in villaggio, di paese in paese: in Francia, certamente, ma anche in Svizzera, in Germania, in Spagna, in Italia, fino ad arrivare a Roma. Nutriva una predilezione per Loreto dove si recò l’11 febbraio 1777. Si racconta che il prete al quale si era presentato per confessarsi rimase spaventato dalla vista di questo miserabile, coperto di parassiti: gli chiese di rimanere fuori della chiesa, ma quando lo ascoltò, si mise lui stesso in ginocchio davanti al mendicante perché aveva scoperto in lui un uomo che viveva costantemente alla presenza di Dio. Quando meditava l’incoronazione di spine, gli capitava di rimanere in estasi, in Dio, nella sua Trinità. Dopo aver percorso circa 30.000 (trenta mila) chilometri, S. Benedetto Labre ha finito la sua vita a Roma. Egli dormiva nelle rovine del Colosseo. Il mercoledì santo del 1783, si trascinò fino alla chiesa di Santa Maria ai Monti e crollò sulle scale del sagrato. Dei ragazzi diffusero immediatamente la notizia nella Città eterna: “Il Santo è morto!”. Infatti, i miracoli si moltiplicarono a partire dal giorno del suo funerale, la domenica di Pasqua. In un mondo che si sottometteva già alla ragione utilitaristica, Benedetto Labre ha voluto diventare il testimone della gratuità e dell’abbandono alla Providenza, alla carità dei suoi fratelli!
Il filosofo e il mendicante, due uomini così diversi e tuttavia riuniti in una stessa ricerca. Il primo non ricercava a Loreto il Dio astratto delle Idee pure, ma voleva toccare quelle pietre che testimoniavano, anche nel loro silenzio, della venuta di Dio fino nella carne umana. Il mendicante, lui, aveva abbandonato l’immagine di Dio alla quale si riferivano volentieri i grandi e i potenti di questo mondo: venendo a Loreto, anche lui intendeva toccare da vicino Colui che si era lasciato toccare dalla miseria umana. Tutti e due, il filosofo e il mendicante, avevano afferrato bene il messaggio singolare consegnato da questo luogo: colui che viene nella vecchia casa dove si è svolto il primo atto dell’Incarnazione, voglio parlare dell’annuncio fatto dall’Arcangelo Gabriele alla giovane Maria, deve persuadérsi che è lui stesso chiamato a diventare a sua volta una pietra viva di una casa nuova, quella che il Signore costruisce per coloro che mettono in lui la loro speranza, la Chiesa. Da una casa all’altra, da un mistero all’altro, dalla generazione del Verbo alla vita eterna offerta a tutti, dall’Incarnazione alla missione, da Nazareth ieri alla Chiesa di oggi e di domani. Ecco in poche parole il senso di Loreto e della nostra presenza al pellegrinaggio di questa notte.
“Casa mia”, espressione magica! Se ci pensiamo bene, ciascuno di noi non si ricerca forse uno “spazio suo”, un luogo modellato secondo i suoi gusti e i suoi mezzi, dove mettersi al riparo e riprendere le forze? Penso a quel colpo di genio delle religiose che, dovendo accompagnare gli anziani fino al loro ultimo soffio di vita, hanno chiamato l’istituto “Casa mia”. Esse hanno capìto che se la vecchiaia ci obbliga a spogliarci di tutto, la rinuncia più sensibile, o più drammatica, rimane quella di dovere abbandonare ciascuno lo “spazio suo”. Maria e il bambino che portava dentro avrebbero potuto dare a Loreto questo bel titolo: “Casa mia”. Questa sera, cari amici, venendo a pregare davanti alla casa del passato, siamo invitati, in questa vigilia di Pentecoste, a riaffermare la bellezza di quello che il Signore continua a chiamare “Casa mia”, voglio dire la Chiesa.
La missione che ci aspetta non è altro che questa: fare in modo che la Chiesa diventi la casa universale, dove ciascuno si senta a casa sua. Evidentemente, quest’opera si realizzerà solo se vi consacriamo le nostre forze, la nostra dedizione, il nostro cuore e la nostra intelligenza. Tuttavia, questa festa di Pentecoste ci ricorda che senza lo Spirito Santo, non possiamo fare nulla. È Lui il vero architetto della casa da edificare, il vero progettista della nostra Chiesa, come ce lo spiegava San Paolo nella sua Lettera ai Romani ascoltata nella seconda lettura: «Colui che scruta i cuori sa che cosa desidera lo Spirito, perché egli intercede per i santi secondo i disegni di Dio».
Questa sera abbiamo l’opportunità di celebrare giustamente la Messa dello Spirito Santo. Questa acqua viva di cui abbiamo bisogno per dissetare la sete di cui parlava Gesù nel Vangelo proclamato, è Lui. Questa forza di cui abbiamo bisogno per continuare il nostro cammino senza scoraggiarci sulla strada dove il Signore ci chiama, è ancora Lui. Questa saggezza che ci è tanto necessaria quando dobbiamo prendere delle decisioni che orientano la nostra vita, è sempre Lui. Questo architetto, infine, che costruisce la nostra casa comune, la Chiesa, dove ciascuno di noi deve potere trovare conforto e incoraggiamento, è Lui. Che nostra Signora di Loreto faccia dono a ciascuno di noi della disponibilità del cuore che è stata la sua, quando l’angelo le apparve in queste stesse pietre per confidarle il bel progetto di amore che Dio nutriva per gli uomini!  Amen.

domenica 5 giugno 2011

Ascensione di Gesù al cielo

 
Mt 28,16-20

A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. 


+ Dal Vangelo secondo Matteo

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.

Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Parola del Signore 


Commento a cura di padre Ermes Ronchi

Cristo, pienezza e futuro di ogni cosa

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» È i­nutile inseguire quel volto, impossibile toccare quel cor­po. È finito il tempo degli in­contri e dei nomi, quando egli diceva: «Pietro!», «Maria!», «Tommaso!» e sulle sue labbra i nomi parevano bruciare; fi­nito il tempo del pane e del pe­sce condivisi attorno allo stes­so fuoco sulla riva del lago.
L'ascensione è la festa della sua presenza altrimenti: della sua presenza in tutte le cose, in tutti gli uomini, in tutti i gior­ni. Gesù non è andato lontano: è andato avanti e nel profon­do. E chiama a pienezza gli uo­mini, il tempo e le cose. Dice Paolo: «Cristo è il perfet­to compimento di tutte le co­se». Cristo è la pienezza e il fu­turo di ogni cosa che esiste. Il mio cristianesimo è la certez­za forte e inebriante che in tut­te le cose Cristo è presente, forza di ascensione dell'intero creato, energia che alimenta la nostra esistenza e la storia u­mana.
Un aggettivo prorompe da Matteo e da Paolo: «tutto»: An­date in tutto il mondo, a tutte le genti annunciate tutto ciò che vi ho detto, ogni potere è mio, io sarò con voi tutti i gior­ni, tutto è sotto i suoi piedi. «Dal giorno dell'ascensione abbiamo Dio in agguato al­l'angolo di ogni strada» (F. Mauriac).
C'è un sapore di totalità, un sapore di infinito, una prete­sa di assoluto, un superamen­to dei limiti di luogo, di mate­ria, di tempo. Si apre la di­mensione del Cristo cosmico, non assenza ma più ardente presenza, sparpagliato per tutta l'umanità, seminato in tutte le cose, fino a che alla fi­ne dei giorni sarà «tutto in tut­ti» (Col 3, 11). Non solo in me, in te o perfino nel cuore di­stratto e in quello che si crede spento, ma Cristo è presente in tutte le cose: nel rigore del­la pietra, nel canto segreto delle costellazioni, nella forza di coesione degli atomi, per un nuovo cielo, per una nuo­va terra. Tutti i giorni e tutte le cose sono ora messaggeri di Dio; tutti i giorni e tutte le co­se sono angeli e Vangeli. «E il divino traspare dal fondo di o­gni essere» ( Theilard de Char­din).
«Voi sarete miei testimoni», te­stimoni che dicono: noi di­pendiamo da una fonte che non viene
meno; nella nostra vita è in gioco una forza più grande di noi e che non si e­saurisce mai. Il nostro compi­to è accogliere questo flusso di vita che ci è consegnato. Ac­cogliere e restituire – alle ve­ne del mondo, alle relazioni, al cuore limpido – tutto ciò che alimenta la vita e che ha la sua sorgente oltre noi.