lunedì 20 aprile 2009

Dal quotidiano L'Avvenire


Benedetto XVI, quattro anni al servizio della verità

«Nell’intraprendere il suo ministero il nuovo Papa sa che suo compito è di far risplendere davanti agli uomini e alle donne di oggi la luce di Cristo: non la propria luce, ma quella di Cristo», scandiva mercoledì 20 aprile 2005 Benedetto XVI nel suo primo messaggio, al termine della Messa nella Cappella Sistina con i cardinali che il giorno prima lo avevano eletto. Sono passati quattro anni da quelle ore memorabili che videro il successore di Karol Wojtyla additare fra i cardini del proprio pontificato l’attuazione del Vaticano II, l’impegno per la «piena e visibile unità» dei cristiani, il «dialogo aperto e sincero» con gli ebrei, con i fedeli di altre religioni, con i non credenti appassionati al «vero bene» dell’uomo e della società. «Dopo il grande papa Giovanni Paolo II, i signori cardinali hanno eletto me, un semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore», aveva detto con voce commossa il giorno precedente, martedì 19 aprile 2005, benedicendo i fedeli che affollavano piazza San Pietro. «Mi consola il fatto – aveva aggiunto – che il Signore sa lavorare ed agire anche con strumenti insufficienti e soprattutto mi affido alle vostre preghiere». Una richiesta che avrebbe rinnovato pochi giorni dopo, domenica 24 aprile, nella Messa per l’inizio del ministero petrino. Già lunedì 18 aprile l’allora decano del Collegio cardinalizio Joseph Ratzinger, nella Missa Pro Eligendo Romano Pontifice, aveva chiamato alla preghiera perché la Chiesa potesse ricevere, dopo Wojtyla, com’era stato con Wojtyla, il dono di un pastore «secondo il cuore» del Signore. Per annunciare a tutti che «incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio». E che «quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza». E che di fronte alla crescente «dittatura del relativismo» possiamo trovare nel «Figlio di Dio, il vero uomo», la «misura del vero umanesimo».
Un «apostolo» fra le genti.
Quattro anni dopo quelle espressioni possono essere d’aiuto per rileggere – senza pretesa alcuna di esaustività – gli ultimi dodici mesi di pontificato di Ratzinger. Dodici mesi intensissimi. Che hanno intrecciato momenti di vera gioia con altri di prova e di sofferenza. Ma sempre per far risplendere la «luce di Cristo». L’Anno Paolino, aperto il 28 giugno 2008 con Bartolomeo I e gli esponenti di altre Chiese e comunità ecclesiali. Il Sinodo sulla Parola di Dio, nell’ottobre scorso, che ha chiamato in Vaticano al reciproco ascolto non solo vescovi da tutto il mondo ma anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli e un rabbino. I quattro grandi viaggi internazionali: negli Stati Uniti e all’Onu (15-21 aprile 2008); a Sydney, in Australia (12-21 luglio 2008), per la Giornata mondiale della gioventù; in Francia (12-15 settembre), a Parigi e poi a Lourdes, nel 150° delle apparizioni mariane; in Camerun e in Angola (17-23 marzo 2009), la «prima» di papa Ratzinger in Africa. Le quattro visite pastorali in Italia: a Savona e Genova (17-18 maggio 2008), a Santa Maria di Leuca e Brindisi (14-15 giugno 2008), a Cagliari (7 settembre 2008) e a Pompei (19 ottobre 2008).La misericordia e la chiarezzaFra tante occasioni gioiose, una vicenda che voleva essere un «gesto discreto di misericordia», mentre invece è stata accolta, non da pochi, anche dentro la Chiesa, con inquietudine e perplessità: la remissione (con decreto del 21 gennaio 2009) della scomunica ai quattro vescovi consacrati nel 1988 dall’arcivescovo Lefebvre. Una vicenda che si è sovrapposta col «caso Williamson», dal nome del presule lefebvriano negazionista, e con precedenti polemiche legate alla preghiera pro Judaeis del Venerdì santo secondo il rito antico. Benedetto XVI, dolorosamente colpito dalle accuse di voler tornare indietro, a prima del Vaticano II, e di rimettere in discussione il dialogo con gli ebrei, ha saputo offrire una «parola chiarificatrice» con un gesto coraggioso e inedito: una Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica (10 marzo 2009) in cui ha spiegato respiro, obiettivi e limiti della remissione della scomunica. Parole lucide e accorate per ribadire la sua sollecitudine verso l’unità e la riconciliazione, assieme alla priorità che interpella il ministero petrino e la Chiesa intera: «rendere Dio presente in questo mondo» e «aprire agli uomini l’accesso a Dio», in tempi in cui «in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento».La richiesta di preghiera e consiglio. A turbare e addolorare il Papa non furono solo talune ostinazioni e opposizioni reiterate dalla Fraternità San Pio X riguardo all’accoglienza del Vaticano II e del successivo magistero dei Pontefici – fin qui poco di nuovo sotto il sole – ma anche alcune aspre reazioni scaturite dall’interno della comunità ecclesiale che Ratzinger stigmatizzò con accorata severità visitando il Seminario Romano Maggiore il 20 febbraio scorso, quando denunciò quegli atteggiamenti di arroganza e superbia che lacerano la Chiesa riducendola a «caricatura» di se stessa. Non meno accorate le parole con cui – all’Angelus del 22 febbraio, festa della Cattedra di San Pietro – chiese ai fedeli di accompagnare nella preghiera il suo servizio alla comunione e all’unità della Chiesa, così come quelle pronunciate il 29 marzo nella parrocchia romana del Santo Volto alla Magliana, quando disse che «il consiglio è un dono dello Spirito Santo e un parroco, tanto più un Papa, ha bisogno di consiglio, di essere aiutato nel trovare le decisioni».
Alla radice del vero umanesimo
Quelle parole non sono cadute nel vuoto. Numerose sono state negli ultimi mesi le espressioni di solidarietà giunte da vescovi, associazioni, movimenti, semplici fedeli, oltre che da autorevoli esponenti del mondo ebraico. Accoglienza gioiosa della sua persona e del suo insegnamento, spesso oltre le aspettative, sono emerse proprio durante i viaggi che – spiegò il Papa nel discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2008 – offrono la possibilità di rendere «pubblicamente percepibile» non solo la Chiesa ma anzitutto «la questione su Dio» e la sua «presenza» nell’«attuale ora della storia». Occasioni per ribadire il fondamento inviolabile della dignità umana che trascende la pluralità delle culture, come fu nel discorso alle Nazioni Unite. Per riscoprire le radici della gioia autentica, dono dello Spirito, come avvenne a Sydney con i giovani di tutto il mondo. Per rilanciare il «messaggio di conversione e di amore che si irradia» da Lourdes e apre le persone e i popoli a relazioni di fraternità; per additare – come fece a Parigi – il senso di una «sana laicità» e il ruolo della religione quale «solido fondamento per la costruzione di una società più giusta e più libera» (discorso agli ambasciatori, 8 gennaio 2009). Per incoraggiare i popoli – come fece in Africa – alla riconciliazione, alla giustizia, alla democrazia, alla tutela della vita, alla scoperta della pienezza e autenticità dell’amore tra l’uomo e la donna. Parole che nemmeno le incomprensioni e le polemiche sulle affermazioni del Papa in materia di prevenzione dell’Aids sono riuscite a spegnere. Ratzinger, si rammenterà, ad una domanda dei giornalisti con lui sull’aereo, aveva detto come per superare il problema dell’Aids non bastano i soldi, «pur necessari», né la «distribuzione di preservativi»; la via è invece l’«umanizzazione della sessualità», insieme alla «vera amicizia» con le «persone sofferenti». Educare. E prendersi cura. Parole che hanno scatenato polemiche, soprattutto in Occidente. E consenso, a partire dall’Africa e da vasti, autorevoli settori della comunità scientifica.Ora in Abruzzo e in Terra SantaSe nei viaggi si manifesta con maggiore evidenza il respiro universale del suo magistero, vi sono poi le innumerevoli occasioni di magistero «ordinario» offerte nelle udienze, catechesi, omelie, Angelus, lettere, incontri pubblici e privati che strutturano la fitta «agenda» del Papa e che lo hanno visto toccare temi cruciali – dal valore della vita alla salvaguardia del creato, dalla libertà religiosa alla lotta alla povertà; dalla relazione fede-ragione alle sfide della secolarizzazione, del materialismo, del nichilismo; dagli orizzonti della «legge naturale» ai destini della democrazia e alle responsabilità della scienza di fronte all’identità profonda dell’umano... Così è stato con le riflessioni offerte durante l’ultimo Triduo pasquale – la gioia della Risurrezione, la sua «realtà storica», la «luce» del Risorto per un’umanità disorientata... Lontana dallo sguardo dei media c’è poi la quotidianità fatta di preghiera, studio, colloqui, decisioni da prendere, lavoro oscuro e nascosto – com’è la gestazione della terza enciclica dedicata ai temi sociali. Tutto perché possa risplendere «non la propria luce, ma quella di Cristo». Che fra pochi giorni, il 28 aprile, il Papa recherà all’Abruzzo ferito dal sisma. E che a maggio attingerà nella stessa terra del Nazareno, dove sarà pellegrino di pace e di riconciliazione.
Lorenzo Rosoli

sabato 18 aprile 2009

Il Vangelo della domenica




Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 20,19-31.


La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi». Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!». Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Commento
Le domeniche che ci separano dalla Pentecoste vengono liturgicamente denominate "di Pasqua" per la semplice ragione che " ogni giorno è Pasqua", celebrazione del memoriale della Pasqua.
In particolare, questa domenica di Pasqua, la seconda, celebriamo il Cristo Risorto che, dopo aver spaccato la pietra del sepolcro, spacca il catenaccio della porta del cenacolo, dove impauriti si sono rifugiati gli Apostoli, e, soprattutto, spacca la diffidenza e l’incredulità di Tommaso. Ma oggi la Chiesa celebra anche la Divina Misericordia, voluta nell’Anno Giubilare dal venerato pontefice Giovanni Paolo II.
Tornando al Vangelo di oggi, cioè alla pericope che è argomento del 20° capitolo di Giovanni, ci viene ripresentato un episodio celebre e sintomatico della natura umana: l’incredulità, la diffidenza, lo scetticismo che ci prende quando non siamo supportati dal riscontro di dati oggettivi. Insomma: il credere, per molti, non va d’accordo con l’immateriale, ma è ancorato saldamente al materiale, al tangibile.
Ma proprio per questo la Chiesa vuol far risaltare nell’odierna liturgia due meravigliose virtù: l’amore e la fede. La prima è la Causa prima di tutto l’Universo ( come ci ricorda Dante : " l’amor che move ‘l Sole e l’altre stelle", nell’ultimo verso della Divina Commedia). Quanto all’altra, beh! Siamo in presenza della prima tra le virtù teologali…. Paul Claudel le ha definite " le due stelle del firmamento cristiano: stelle del mattino e della sera, dell’inizio e della fine e di sempre perché rischiarino ai mortali il buio della vita".
E’ grazie alla fede ed all’amore che riusciamo a comprendere nella vera, sublime essenza la natura e l’importanza per noi della manifestazione della Divina Provvidenza. E come per una meravigliosa coincidenza , la Pasqua viene a fungere da ponte, da catalizzatore tra il nostro incerto cammino e le due mirifiche stelle. Non è un caso che S. Massimo il Confessore abbia scritto che " la Pasqua genera la Fede e questa genera l’amore: il Vangelo è tutto qui".
Allora direte voi tutto è facile! Purtroppo non è così. E’ proprio Tommaso, coprotagonista con Gesù del Vangelo di oggi, a sciorinare sotto i nostri occhi quanta difficoltà incontri l’uomo, come dicevo poc’anzi, a "credere" ciò che esula dai suoi sensi.
Ma seguiamo lo svolgersi dei fatti, così come l’Evangelista ce li presenta.
Mio Signore e mio Dio.
Se ci mettessimo ad ascoltare gli Apostoli ( incluso Tommaso) nei giorni immediatamente successivi ai fatti di Gerusalemme, percepiremmo probabilmente delle parole confuse, dubbiose, tipiche di gente impaurita, sfiduciata, senza sbocchi per il futuro più o meno immediato e, soprattutto improntate alla totale incomprensione di tutto quant’era accaduto sotto il loro naso. Insomma, non sono stati capaci di capire né prima, né durante, né dopo. Fortunatamente per loro c’è un evento prodigioso: l’irruzione di Cristo nel Cenacolo.
La Sua Presenza rassicura e conforta. La sua voce, le sue parole ispirano amicizia, fiducia, speranza, gioia. Ora non è più tempo di stare imprigionati nella propria paura, ora è tempo di essere veramente se stessi, fatti ad imitazione di quel Cristo vittorioso che con la sua morte e resurrezione ha restituito dignità all’uomo. Dal Cristo risorto nasce un mondo nuovo ed una nuova umanità, un uomo nuovo.
Finalmente gli Apostoli credono e capiscono: udendo la sua voce, la luce invade i loro cuori impauriti. Non sono tutti nel momento in cui il Maestro entra attraverso l’uscio serrato dal chiavistello: manca Didimo, cioè Tommaso. Gesù lascia i suoi discepoli nel segno della pace, ma Tommaso è assente. I suoi compagni hanno ritrovato fiducia, certezza, fede: un cuore solo ed un’anima sola; un’umanità che si fa comunità libera e si inginocchia solo davanti a Cristo, l’unico capace di nobilitare l’esistenza di ogni uomo. Tommaso torna, ascolta i racconti concitati e gela i compagni: se non vedo non credo.
Per otto lunghi giorni resta inchiodato nel proprio diniego, dal quale recede non per un percorso di resipiscenza che conduce all’autocritica prima ed alla fede poi.
E Gesù si avvicina alla lentezza a credere di Tommaso – alla nostra lentezza –, e lo fa con pochi verbi, i più semplici e concreti: guarda, metti, tocca. C’è un foro nelle Sue mani, in cui Tomaso può entrarvi; c’è un colpo di lancia nel suo fianco e anche lì Tommaso può entrarvi. E nelle mani di Tommaso che toccano, fanno esperienza e inducono a credere, sono le nostre mani che non hanno toccato eppure credono, perché altri l’hanno fatto.
Tommaso " crederà solo" dopo l’intervento di Gesù: " Metti qua il tuo dito… stendi la tua mano…non essere più incredulo…"( Gv 20,27).
Tommaso, dunque, alla fine si arrende, si arrende alla Presenza di un Cristo che dà la pace e con essa rivela all’uomo la sua vocazione di essere un individuo di relazione: in pace con Dio, con gli uomini e con se stesso. Questa è l’esperienza che ci consegnano gli Apostoli e Tommaso. Un itinerario che parte dalla frequentazione di Cristo e approda ad un atto di fede: per cui i primi passano dalla paura alla gioia; e il secondo dall’incredulità ad un atto di fede assoluta, il riconoscimento di Cristo quale Signore e Dio della propria vita.
Una fede che irradia presenza
Per quanto Tommaso sia additato proverbialmente per la sua credulità, tuttavia egli più degli stessi Apostoli incarna in questo frangente l’immagine del vero discepolo, concreto, realista, per nulla idealista.
Egli ha bisogno per credere di sentire, avvertire, toccare la presenza del Cristo. La sua ricerca è un itinerario faticoso, scandito da lentezze, slanci, incertezze, incomprensioni, paure, coraggio, dubbi, proteste, generosità, smarrimenti.
È un discepolo che cerca, vuole constatare, provare, sperimentare di persona, a rischio di essere malvisto. Ma alla fine il suo desiderio sarà pienamente appagato. Il suo percorso sarà coronato da un riconoscimento che si fa autentico atto di fede: "Mio Signore e mio Dio".
Dall’incredulità all’estasi. Dal desiderio di possedere una certezza all’essere posseduto dalla Verità. Dalla richiesta di verificare la veridicità dell’evento all’adesione radicale al contenuto dell’evento: una dichiarazione di appartenenza, uno scambio di vita.
È la vitalità di Dio che si fa compagna dei nostri giorni, avvertirla significa sentire salire dentro una energia che chiede di essere raccontata, vissuta, annunciata. Una energia che dilata il cuore, semina luce, dà voce alla speranza di una vita rinnovata nell’amore. È la fede che irradia una Presenza, che esprime l’appartenenza esaltante ad un Dio vivo.
Conclusione
Il faticoso approdo alla fede da parte di Tommaso non va letto con occhio improntato alla critica o, peggio, alla condanna. Anzi, vi dobbiamo scorgere un modello, ricavarne una lezione di vita,dal momento che non è poi tanto arduo riconoscere nel suo schema mentale il nostro schema mentale, nei suoi parametri valutativi i nostri parametri, nella sua ingenuità la nostra, nel suo senso realistico anche il nostro. D’altra parte, chiediamoci: se non esercitassimo una sana cautela prima di prendere un decisione, se non andassimo - come si dice in questi casi - " con i piedi di piombo" – quante sciocchezze compiremmo, a quante delusioni andremmo incontro? Allora, cerchiamo di valutarlo se non proprio con simpatia almeno con benevolenza o, se volete, con il medesimo approccio "pratico", realistico, di cui dette prova nella circostanza del Cristo Risorto.
Se Lui l’ha capito e l’ha perdonato a noi non resta che seguire anche in questo Gesù nostra Pasqua.
Tommaso è uno di noi, dunque. Anzi, è ognuno di noi che da credente cresce nella propria fede. E’ il non credente che è presente in ogni credente. Compito di ciascuno di noi è insistere nei tentativi di avvicinamento, nel lanciare segnali ( da prima incerti, timidi, appena percepibili, poi sempre più chiari) affinché Qualcuno – captandoli – ci porga la mano e ci permetta di esclamare proprio come Tommaso,
"Mio Signore e mio Dio"! Approfittiamo della S. Pasqua, di queste domeniche di Pasqua, per cogliere al volo la grazia di accrescere la nostra fede, giacché " cristiani non si nasce, ma lo si diventa"( Tertulliano).
La fede non è un trofeo, una medaglia olimpica, che una volta vinta, nessuno ci può togliere . La fede va alimentata, coltivata,accresciuta alla luce della presenza di Cristo. Come Tommaso e gli altri apostoli. O come i discepoli di Emmaus, che dopo aver riconosciuto Gesù, ritrovarono la lena ed il vigore di tornare correndo a Gerusalemme a trasmettere – con la buona notizia – la gioia e l’entusiasmo all’afflitta comunità impaurita.
La fede scaturisce dall’esperienza che si fa di Cristo, attraverso la Parola, i Sacramenti, in primis l’Eucaristia: l’Amore di Dio che si fa cibo di vita eterna per coloro che hanno fede in Lui.
Continuiamo a cercare perché "Qualcuno ci possa trovare". Ed alla fine della strada poter dire anche noi: "Mio Signore e mio Dio".
Serena domenica.
+ Vincenzo Bertolone

Giorno della misericordia

La seconda domenica di Pasqua (domenica in albis) la Chiesa celebra la festa della Divina Misericordia, devozione affidata da Gesù a Santa faustina Kowalska per la salvezza di tutti i peccatori e voluta da Giovanni Paolo II.
In questa occasione verrà fatta una colletta a favore dei fratelli dell'Abruzzo.
A riguardo riporto un articolo pubblicato dal quotidiano "l'AVVENIRE.

"Una mano ai nostri fratelli che ricominciano da capo "

La colletta nelle chiese per dar carne alla speranza.
La colletta per i terremotati d’Abruzzo che verrà fatta domani in ogni parrocchia d’Italia è una questione di speranza. Non semplicemente di soldi – per quanti ne occorrano, e molti, per ridare una casa a ventimila senzatetto, una sistemazione provvisoria a chi attende di riparare le tracce degli artigli del terremoto, o una chiesa a chi prega in una tenda. La mano che verrà tesa ai fedeli italiani, a messa, chiede un aiuto concreto, eppure domanda anche altro. Domanda un segno: un essere accanto a queste popolazioni di una regione chiusa tra le montagne, non ricca, una terra da cui da sempre si emigra. Terra spesso rimasta antica. Terra che non ha perduto la sua memoria (su quante, delle pareti in bilico sulle case sventrate, in questi giorni abbiamo visto ancora appese quelle immagini sacre che nelle nostre case moderne ignoriamo). Solidarietà, dunque, certo. Ma perché, una questione di speranza? Per dirlo dobbiamo ricorrere alle parole che abbiamo sentito, nelle tendopoli, accanto alle rovine, da preti, suore, semplici cristiani. Perché un giornalista arriva da Milano, sa di avere intatta la sua casa, i suoi figli, e davanti a chi ha perso tutto prova quasi una imbarazzata vergogna. Domandi allora, come abbiamo chiesto noi a una suora con i capelli grigi, a Collemaggio, sfollata da un convento duramente lesionato: e adesso? La vostra casa, la vostra scuola, e ora? E quella con i suoi sessant’anni, quieta, risponde: «Se Dio ci ha tolto tutto, significa che vuole che ricominciamo da capo». Semplice, parrebbe quasi (ma quanto atrocemente difficile per noi, gente normale, che fa conto su ciò che possiede). Dio, ci han detto a Collemaggio, vuole che ricominciamo da capo. Fede antica, ti dici allora, fede d’altri tempi e d’altre generazioni, mormori tra di te andandotene. Ma poi incappi in un altro, un prete del Sud venuto qui a aiutare, don Pasquale, trent’anni e una faccia da ragazzo. Anche a lui chiedi conto, chiedi ragioni davanti a tanto dolore, nelle tende di Onna, il paese della strage. «Un vecchio, ieri – risponde lui – mi ha detto: questo, è un castigo. Non è vero, gli ho risposto. Tutto questo strazio, deve essere per un bene più grande». (Che è, declinato in poche parole sotto a una tenda, nel freddo di una sera d’Abruzzo, concetto agostiniano: ogni male, è per un bene più grande). Memoria cristiana, fede ereditata. Ma sentire parlare così uno che potrebbe quasi essere tuo figlio, credeteci, meraviglia e commuove. Come commuove il giovane prete polacco, parroco di Arischia, sull’Appennino, che all’alba di quel lunedì è tornato nella sua chiesa disastrata e pericolante, per portare in salvo le ostie consacrate. C’è una speranza in Abruzzo, nella chiesa di Abruzzo e nella gente che in questi giorni vedevi a messa, senza che fosse domenica, attorno ad altari improvvisati sulle cucine da campo. La terra li ha traditi, la casa li ha traditi, e in molti hanno addosso un lutto lacerante – un figlio, un padre che non hanno fatto in tempo a salvare. Eppure, più che rabbia, più che ribellione, vedi qualcosa che sembra ora una percossa ma tenace fedeltà, ora un tenere duro da roccia, ora, come in quella suora, in quel prete, una speranza certa. Qui hanno bisogno di case, di scuole, di tutto, e per questo domani nelle chiese verrà stesa la mano. Ma nel ricostruire, nel ridare – almeno ciò che umanamente può essere ridato – c’è il senso dell’alimentare e abbracciare la speranza di un popolo. «Da questo male, un bene più grande», è il respiro che abbiamo ascoltato in Abruzzo. La speranza degli uomini è fatta anche di case, mattoni, fabbriche. La speranza è anche carne, e va nutrita (anche in tempi stretti, di crisi, ci viene detto: qualcuno è più povero). Occorre dare un segno. Laggiù ci credono: «Dio, vuole che ricominciamo da capo».
Marina Corradi

venerdì 17 aprile 2009

In libreria

"Ascoltate il Figlio amato"!


Questo libro contiene commenti sintetici alle tre letture delle domeniche dell'anno liturgico elaborati da Enzo Bianchi per la riflessione, la preghiera personale e l'animazione dei gruppi biblici. Dopo il titolo vengono riportate le citazioni bibliche e il volume scandisce i tempi dellAnno Liturgico: Avvento, Natale, Ordinario, Quaresima, Pasqua, Feste e Solennità. Lo stile di Enzo Bianchi è inconfondibile, sobrio, profondamente radicato nel testo biblico ma attento alle dinamiche liturgiche della comunità che celebra la propria conversione e salvezza ogni domenica.
Enzo Bianchi (Castel Boglione, Monferrato,... (continua)

Testimonianza della settimana

L'incontro con Gesù cambia la vita ed ha cambiato anche la vita di una sorella di cui vi rendo testimonianza.

"Il Signore guarì tutte le mie ferite interiori"

Mi chiamo Francesca, ho 35 anni e sono di Reggio Calabria. Fin da bambina mi è stata insegnata l'obbedienza a Dio e tutti i vari insegnamenti tradizionali della Chiesa Cattolica. Da bambini le cose si vedono diversamente che da adulti, ed io ero convinta che Dio fosse meraviglioso. Ma purtroppo la mia visione di Dio cambiò quando vidi lo sgretolamento della mia famiglia sotto i miei occhi. I miei genitori non facevano altro che litigare. Cominciavo a pensare che se anche Dio fosse esistito era un egoista, perché vedeva la mia sofferenza ma sembrava non gli importasse niente. Col passare degli anni le cose non migliorarono. Avevo circa 18 anni quando mio padre se ne andò di casa per andare a vivere con un'altra donna, lasciando mia madre in preda alla disperazione e con quattro figli da accudire, due dei quali ancora in tenera età. Questa situazione mi portò ad una ribellione interiore verso tutti e tutto, ma soppratutto verso Dio. Cominciai a fare le mie esperienze frenata un pochino da mio padre, avevo timore di lui perché era sempre stato un tipo autoritario, e pur vivendo fuori casa riusciva a mantenere il controllo di noi figli. Le cose non andarono avanti sempre così. Col passare del tempo la mia vita interiore diventava sempre più tormentata da paure ed insicurezze, che mi portarono a rifugiarmi nell'alcool e nel fumo. Bevevo quello che mi capitava per raggiungere quello stato d'ebbrezza che non ti fa rendere conto della realtà. Fumavo per sentirmi grande davanti alle mie amiche.Poi ci fu un periodo particolare della mia vita che fu decisivo per me. Una collega di lavoro di mia madre cominciò a parlarmi di Gesù, di come poteva cambiare e sostenere la vita di quanti si affidavano a Lui fiduciosi. Nel sentirla parlare pensai: "Questa donna è pazza oppure ha trovato veramente qualcosa per cui vale la pena vivere". Così, dopo tanta insistenza di mia madre, decisi di andare ad una riunione che si teneva in una comunità evangelica. Non ricordo il messaggio, ma la cosa che mi scioccò positivamente fu quella di vedere tanti miei coetanei lodare Dio con un fervore mai visto, e pensai: "I ragazzi che conosco non sono così". Per la prima volta mi sentii sporca davanti a Dio, bisognosa del Suo perdono e del Suo amore. Nel giro di un mese tante cose cambiarono nella mia vita, avevo di nuovo quella fiducia e quella sicurezza in Dio che avevo da bambina. Il Signore aveva fasciato e guarito tutte le mie ferite interiori, tutto l'odio verso mio padre, tutto il rancore verso il mondo e tutto il disprezzo verso me stessa, tutto era sparito come un vapore. L'odio aveva lasciato spazio all'amore, la tristezza alla gioia, la morte interiore alla vita, ad una nuova vita eterna. Per sei anni la mia vita fu al servizio di Dio. Anche mio padre tornò a casa e finì col battezzarsi insieme con me e a mia madre. Sono stata benedetta con un marito meraviglioso ed ho una bellissima bimba di tre anni. Oggi voglio dire a tanti che si mostrano indifferenti a Dio, anche se ogni cosa e tutti ti deludono in questa vita, Dio non ti deluderà mai. Se ti affidi a Lui con fiducia, Lui porterà i tuoi pesi e sosterrà la tua vita sul palmo della Sua mano.
Dio ti benedica.
Francesca Minutolo

Referendarismo

Pubblichiamo un articolo tratto dal quotidiano "Avvenire".
"E se per una volta prendessimo il referendarismo per le corna?"

MARCO TARQUINIO
Non siamo ancora riusciti a capire quanto costerà fissare la data del prossimo referendum elettorale in giornate diverse da quelle in cui voteremo per il Parlamento europeo e per una nutrita serie di amministrazioni locali. C’è chi (come i promotori della consultazione) parla di 400 o, almeno, di 313 milioni di euro. E chi invece (come il ministro dell’Interno) ipotizza non più di 173 milioni. C’è, infine, chi rifà i calcoli e conclude che non si supererebbero i 50 milioni. Differenze non da poco, ma che alla fin fine non toccano il cuore della questione. È possibile che si 'buttino via' così dei soldi pubblici? Ed è concepibile che lo si faccia in un momento in cui, sotto il cielo plumbeo di una pesante crisi economica e nell’incalzare dell’emergenza­terremoto in Abruzzo, l’imperativo è quello di mettere bene a frutto ogni risorsa disponibile? Crediamo che la risposta sia semplicemente 'no'. Non è possibile né concepibile, e non sarebbe giusto. Restano poche ore per decidere. E molto – a cominciare dalle parole spese ieri dal presidente del Consiglio, che ha addirittura ammesso il rischio di una «crisi di governo» a causa del veto anti­referendario della Lega – induce a ritenere che non ci sia spazio per ripensamenti che conducano, il 6 e il 7 giugno, all’indizione di un grande «election day». Eppure, mentre tra gli stessi promotori dei referendum c’è chi sembra accorgersi dei costi della spericolata strategia seguita, non ci sembra fuori luogo chiedere alle forze di maggioranza un’ulteriore riflessione sulla questione e a tutti i partiti, nessuno escluso, un’assunzione di responsabilità. Da osservatori sempre meno convinti dell’utilità dell’operazione condotta dagli ideatori dei tre quesiti sull’attuale legge elettorale ci sembra, infatti, opportuno che si valuti l’ipotesi di trattare i cittadini-elettori da interlocutori a tutto tondo. Perché, vista l’emergenza davvero eccezionale in cui siamo immersi, non si va a un effettivo «election day» che, per una volta, metta insieme europee, amministrative e referendum? E perché non lo si fa spiegando con chiarezza agli italiani il motivo per cui sarebbe bene bocciare quest’ultima consultazione, rifiutando in massa le schede referendarie? Prendendo certo referendarismo per le corna, si possono ottenere due risultati. Da un lato, si recupererà comunque un gruzzolo aggiuntivo da investire nella ricostruzione dell’Abruzzo terremotato. Dall’altro – e su questo dovremo dilungarci un poco – si contribuirà all’archiviazione della vecchia e pericolosa illusione (coltivata in circoli tanto ristretti quanto lontani dall’elettorato reale) di far nascere il «nuovo» in politica usando l’ascia referendaria come rude forcipe. Ne sono state dette tante, in questi giorni. Si è arrivati persino a sostenere che l’obiettivo del referendum sarebbe quello di ridare piena possibilità di scelta ai cittadini-elettori nel processo elettorale. Non è affatto così, purtroppo. I tre quesiti non puntano a ridarci almeno il potere di esprimere la nostra preferenza per un deputato o un senatore, puntano ad altro. Vogliono, soprattutto, chiudere l’epoca delle coalizioni e cancellare la «cultura» (seppur via via meno raffinata ) che dalla nascita della Repubblica ai giorni nostri le ha rese possibili. E vogliono farlo trasferendo definitivamente il premio di maggioranza dall’alleanza più votata al partito più forte. Hanno, insomma, l’ambizione di dare all’Italia un sistema non più bipolare, ma tendenzialmente bipartitico e, comunque, basato su tre-quattro partiti solitari. Una semplificazione ancora più radicale di quella avviata con la riforma delle opzioni e dei comportamenti politici che, alle ultime elezioni, ha prodotto il duello tra le mini-coalizioni Pdl­Lega Nord e Pd-Italia dei valori e l’azzeramento parlamentare di tutte le altre forze, a eccezione dei centristi dell’Udc. L’obiettivo dei referendari è suggestivo, e assai rischioso. Minaccia di dare il via non a una positiva valanga riformatrice, ma a una slavina destrutturatrice. Viene perseguito – a Costituzione invariata – all’interno di un sistema istituzionale che negli gli ultimi quindici anni è stato parzialmente manomesso, e che con l’avvento di un’inedita stagione di egemonie monocolori subirebbe un’altra durissima prova. La minoranza di volta in volta più cospicua verrebbe messa nella condizione di esprimere il governo del Paese, di dettare le leggi, di stabilire le regole delle assemblee legislative e di designare le più alte cariche di garanzia, a cominciare dal presidente della Repubblica... Oggi, è evidente, un simile strapotere toccherebbe al Pdl (e colpisce che il partito del premier Berlusconi sia stato bersagliato di critiche per aver osteggiato, in nome di una logica di coalizione, il referendum invece di cavalcarlo). Domani, forse, ad altre formazioni magari in grado di rappresentare a malapena un terzo o, addirittura, un quarto dell’elettorato. Di questa prospettiva, di quelle schede, meglio fare a meno. Fateci andare alle urne una volta sola, e fateci dire: «Il referendum elettorale? No, grazie».
Marco Tarquinio

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giovedì 16 aprile 2009

Amore e Famiglia, la regola


Pubblichiamo un articolo tratto dal quotidiano "Il Messaggero" che riporta un insegnamento importante di Giovanni Paolo II sulla famiglia.


L’INEDITO di Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, che qui di seguito pubblichiamo, risalente alla stessa data dell’enciclica Humanae Vitae di Paolo VI, non solo rivela l’idem sentire dei due grandi pastori della chiesa cattolica, ma risulta di straordinaria attualità. Nella persuasione del futuro Papa polacco che il matrimonio cristiano può realizzarsi soltanto come esperienza di una società altra da quella comune, c’è una preoccupazione profetica della crisi dei valori che attraversa il destino della società occidentale e dei suoi modelli. La regola del Papa polacco si rivolge non ai coniugi come singole persone, ma come coppia, e le coppie debbono riunirsi in gruppi dediti a rielaborare il modello di vita coniugale e familiare per scoprirne e viverne il profondo significato spirituale. Maturata nella cura d’anime, da parroco e da vescovo, questa Regola di Wojtyla proietta sul tormentato orizzonte delle società secolarizzate e multireligiose del Terzo Millennio l’immagine originaria del Cristianesimo, che nel matrimonio e nella famiglia tende ad affermare una dimensione trascendente all’intera vita umana.
(Francesco Paolo Casavola)

LA PRESENTE Regola sorge da una serie di esperienze pastorali con alcune coppie di sposi e, allo stesso tempo, sulla base dell’esperienza matrimoniale delle coppie stesse. Essa nasce contemporaneamente all’uscita dell’enciclica Humanae vitae, la quale ripropone alle coppie di sposi e ai loro pastori le esigenze evangeliche di un matrimonio autenticamente cristiano. il gruppo di coppie che adotta questa regola potrebbe prendere, di conseguenza, il nome di “Humanae vitae”. La Regola si rivolge alle coppie matrimoniali nella loro interezza e non ai singoli coniugi. È importante, infatti, che essa venga adottata e realizzata dalle coppie di sposi e non dai mariti o dalle mogli, senza l’impegno dei rispettivi coniugi. In linea di massima, la Regola impegna gli sposi solo alla vita secondo le norme della morale cristiana che attengono all’ordine dei Comandamenti; non obbliga, invece, alla vita secondo i consigli evangelici strettamente intesi. In senso stretto, infatti, la realizzazione dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza può darsi solo per quelle persone che sono chiamate alla vita religiosa. Tuttavia, l’esperienza della vita coniugale dimostra che l’osservanza delle regole morali annunciate dalla Chiesa non è possibile senza un certo grado di ascesi; le coppie di sposi appartenenti ai gruppi “Humanae vitae” devono, dunque, riflettere su come mettere in pratica lo spirito dei consigli evangelici. Il fine particolare dei gruppi “Humanae vitae” è il continuo impegno verso l’atteggiamento spirituale suddetto. Affinché l’insegnamento integrale di Cristo Signore su matrimonio e famiglia, annunciato dalla Chiesa, possa compiersi nel loro matrimonio con piena comprensione e con pieno amore. Si tratta quindi di formare un’adeguata spiritualità – ossia una vita interiore – che permetta di configurare la vita coniugale e familiare in modo cristiano. Tale spiritualità non può esistere in una forma definitiva, sul modello delle congregazioni religiose, ma deve essere costantemente rielaborata. La rielaborazione della spiritualità è un altro importante compito dei gruppi. Mezzo di questa rielaborazione è la messa in pratica, da parte delle singole coppie, di quell’atteggiamento spirituale menzionato sopra. Il secondo fine particolare dei gruppi “Humanae vitae” è l’apostolato. In questa sede, però, non ne vengono decise le forme precise. Tuttavia, le coppie di sposi che fanno parte dei gruppi assumono l’impegno di un certo apostolato e, soprattutto, del la preghiera costante in favore delle altre coppie di sposi e per la fondamentale questione del matrimonio e della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporanei. La forma dei diversi modelli di apostolato o della preghiera suddetta sarà da elaborare progressivamente. Si lascia alle stesse coppie di sposi la decisione di impegnarsi a realizzare i compiti delineati attraverso una promessa particolare.
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